Una cultura senza civiltà Pierfranco Bruni

 

Le lingue meridionali sono un raggruppamento di dialetti e formano una sola lingua con diverse forme di parlare e parlanti? Le lingue o i dialetti o la lingua con le parlate di regge soltanto all’interno di una antropologia legata strettamente al luogo. Parola e luogo nel Sud sono il vero mosaico i cui tasselli sono divergenti e convergenti. Il dialetto può essere, in una cultura oltre le masse, risaliente? Ormai in modo sbilenco ci vogliono far credere che si è entrati in una antropologia del risalenti, termine di una leggerezza che più che leggere diventa vuota di idee e di pensiero. Comunque!

Amalgamare le parole intorno ad una lingua è impossibile. Ci sarebbero deformazioni e tagli, suoni e ritmi, captazioni e deformazioni di geografie in contraddizione tra luogo e linguaggio. Le geografie servono non solo a localizzare ma anche a registrare la bussola di un vocabolario in cui non si custodiscono lemmi e parole ma storie, identità ed eredità del linguaggio stesso. Ma la tecnologia è la più condizionante omologazione di una società senza eredità e spiritualità.

Ciò che una volta i linguisti definivano «ceppi» oggi non sono più tali. Le contaminazioni hanno invaso così tanto le lingue che gli stessi incavi linguistici sono diventati preistoriche. I primitivismi sono bibliografia. Bisogna fare i conti con una lingua che si è totalmente modificata e i dialetti sono diventati e considerati frammentazioni senza senso nelle società che abitiamo. Ha ancora senso un dialetto nelle lingue delle multimedialità? Assolutamente no. Siamo dentro precarietà e la mediocrità. Tutto è mediocre. La modernità è espressione di mediocrità.
È come se non volessimo prendere coscienza che le società è totalmente mutata rispetto al 1989 ed è mutata ancora rispetto al 2001 ed è ancora cambiata rispetto al vocabolario che va dalla pandemia al dilemma russo – ucraino. Non abitiamo nel tempo della lentezza come nella temperie di passaggio tra realtà contadina e mondo industriale. È preistoria tutto. Abitiamo una storia senza conoscenza e un sapere senza identità.
Anche il dialetto è preistoria. Consegniamolo alla memoria se si vuole essere dentro la contemporaneità senza perdere i legami con una tradizione che scompare nel sostituire l’immediato oltre il presente. Siamo entrati in un processo inevitabile che nasce dall’identitario ma verso la costruzione di nuove identità non solo etiche ma linguistiche. D’altronde perché si dovrebbe restare legati a concetti o parole che le nuove generazioni ignorano e perché non dovremmo noi consolidarci ad un presente attuale che domina i linguaggi di un sapere nuovo e diverse.
Perché il passato era mogio del presente? Ma no. Il Sud è  la raccolta di diversi Sud. Siamo radicati a retaggi che non fanno più parte del nostro tempo e del nostro essere. Perché non è vero che l’essere stato è ciò che siamo. È una finzioni ad uso e strumento di una tradizione che vuole avere continuità e che tale non ha e che tale non è. Il Sud non è più la raccolta di episodi di diversi Sud. È un territorio  una lingua, un luogo in cui si intrecciano costumi.
Pensare di avere nostalgie è anacronistico. Le nostalgie sono macerie che diventano cimitero. Viviamo il tempo che ci tocca vivere senza perdere il senso della memoria senza però fare della memoria un feticcio. Oggi va di modo il termine «risilienza». Un concetto conformismo ma fi un barlume spacca sabbia. E tutti lo usano. Dalle istituzioni alla classe docenti ai ragazzi senza esperienza. Il vocabolario della «classe dominante» impone le proprie parole come qualche hanno fa era di moda il «non ci sto» oppure il «resistere».
Il fatto è molto più complesso. L’Europa ormai non ha più una sua identità culturale precisa, non una sua storia. È tutto è diventato omologante e conformista. L’Italia non ha una politica culturale da decenni ed ha una mediocre scuola tranne qualche impennata di singoli docenti o singoli istituti scolastici. Le università sono in caduta libera. Non c’è una vera grande cultura perché mancano gli studiosi liberi, i docenti liberi, i pensatori veri tranne qualche eccezione. Tecnocrazia e burocrazia dominano.
I linguaggi sono ormai quelli delle «App». Ma possono ancora sussistere i dialetti? Dai, non giochiamo più con questi salti campane, come si diceva una volta. Abitiamo un tempo altro e in questo tempo il dialetto non ha più spazio. Dobbiamo cercare di educarci al linguaggio delle oltre e altre «App» perché altrimenti il giorno dopo diventiamo archeologici. Così è anche se ci pare o se non ci pare. Apriamo degli armadi e depositiamoci tutto ciò che non ha più senso compresi i termini che sembravano potessero durare o avere un senso.
Un tempo è cambiato. E non bisogna seguirlo più e tanto meno o tanto più rimpiangendo. Comprese quelle lingue che consideravamo dialetti di un popolo. I popoli non esistono più Esistono le civiltà. Ma che brutto omologante consociativismo il termine «risiliente». Un kitsch del linguaggio. Ma come si fa a non capirlo?
Troppo angloamericamismo ci ha deviati. Le lingue meridionali? Il Sud è soltanto uno spazio di un giustificazionsmo da vecchia Cassa del mezzogiorno. Esistono diversità di luoghi, territori e politiche oltre che di uomini, di idee, di realtà. Taranto è un luogo ma è fatta anche di uomini. Cosenza altrettanto. Sondrio anche. Varese lo stesso. Smettiamola con la miseria e la nobiltà. Siamo diventati senza quella cultura che consideravamo identitaria, anche se noi siamo figli identitari in destino di appartenenza, e siamo diventati delle «App» resilienti. Ovvero il linguaggio senza il «codice» della bellezza potrebbe salvarci. I dialetti? Pensate gente, pensate popoli. Pensiamo noi uomini delle carlinghe… Dobbiamo essere risalienti altrimenti non siamo di moda. Ma fermiamoci davanti ad uno specchio e oltre a specchiarsi cerchiamo di ascoltarci. Ma i popoli che non riescono a diventare civiltà saranno risalienti? E chi lo decide? Le classi dominanti? Siamo dominati dal brutto, dalla mancanza di eleganza e dalla supponenza. Insomma. Dalle App alla bruttezza omologante del termine risaliente.
Una cultura senza civiltà.
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