Bruxelles: a La Monnaie una «Cavalleria rusticana» di corale toccante grandezza

 

Bruxelles, a La Monnaie una Cavalleria Rusticana / Pagliacci di corale toccante grandezza

«Hanno ammazzato compare Turiddu» è il grido che sempre conclude la «Cavalleria rusticana»; ma è come arrivare a questo grido che fa la differenza. La messa in scena che abbiamo visto a La Monnaie di Bruxelles segna a nostro avviso una pietra miliare su questo come. Mettere in scena un’opera verista non è semplicissimo, e Cavalleria rusticana, come l’ormai consolidato pendant «I pagliacci» sono una sfida non da poco. Nell’immaginario collettivo degli appassionati d’opera Cavalleria e Pagliacci sono una coppia di fatto, ma la regia de la Monnaie ci fa capire quanto siano legate facendo comparire nell’una personaggi dell’altra opera, creando così una idea di contemporaneità e di collegamento fra le due vicende: è una idea bella, che ci aiuta nella comprensione: del resto l’atmosfera, il paesino siciliano, il contesto sociale, le forti passioni sono le stesse; non a caso Pagliacci è nato come complemento di Cavalleria Rusticana quando, passato l’entusiasmo iniziale, si capì che un’ora e un quarto d’opera non erano sufficienti perché lo spettatore pagasse il biglietto. Semplice, misurata, leggibilissima, ricca oltre ogni limite questa messa in scena non fa perdere un grammo della dirompente potenza sentimentale ed emozionale delle due opere. Evelino Pidò il direttore d’orchestra, e Damiano Michieletto, regista, coadiuvati da Paolo Fantini, scenografo e da Carla Teti, costumista, hanno messo in atto una macchina perfetta, senza una sbavatura; un almalgama vellutato che incanta e che sembra frutto di una sola mano e in cui i cantanti e il coro si muovono come attori consumati, con una voce che segue le melodie della direzione musicale e che nello stesso tempo è parte credibile di una recitazione: magia del teatro, rendere credibile un’azione dove i soggetti invece di parlare cantano!

Un risultato corale straordinario: anche nella messa in scena odierna la coralità verista va a segno.

Altri meglio di me hanno lodato il talento del direttore musicale, che ha lavorato sull’edizione più vicina a quella voluta dallo stesso Mascagni, e ha saputo rendere al massimo quell’arco drammatico che senza interruzione dall’ouverture ci porta al gesto finale del declamato «hanno ammazzato compare Turiddu». La regia ha saputo tradurre in movimenti l’arco drammatico musicale, e ci ha fatto vedere attraverso la recitazione e il movimento quello che ci raccontava la musica, come i segni lasciati dal sismografo che traducono in rapporto grafico le oscillazioni della terra. La Monnaie a mio parere ha disegnato un modello di come si mette in scena il quasi-dittico Cavalleria rusticana / Pagliacci, sgomberando il campo da modernismi/sperimentalismi egoici o da, mi si perdoni l’orrendo termine, ‘crudismi’, ossia rappresentazioni di un reale disseccato e arido, privato della sua componente spirituale.

La Monnaie ci ha regalato una Sicilia molto vicina a noi e molto lontana, un po’ oggi e un po’ medioevo, come nella realtà è, con una attualizzazione che rende il tutto molto più vicino a noi ma lo lascia avvolto in una patina di passato che non lo allontana troppo dal tempo di Mascagni e di Leoncavallo; e qui ha lavorato la bravura della costumista, con abiti/ miracolo moderni ma senza tempo; vedere arrivare Alfio /Dimitri Platanias in una Giulietta rossastra per me siciliano è stato un colpo al cuore: io quel tipo Alfio lo ricordo nella mia adolescenza e realmente aveva la Giulietta e realmente indossava quel vestito, metallizzato come la sua Giuletta! me lo ricordo con la sua arroganza, la sua ignoranza, la sua supponenza del soldo, la sua volgare esibizione dei doni portati ai parenti poveri e la sua morale immorale di tracotante carrettiere che gli fa ergere a Destino la sua misera personale giustizia.

Perfetto il Turiddu creato dalla regia (Teodor Ilincai/Leonardo Caimi), che fa percepire allo spettatore i danni creati dall’eccesso di testosterone prodotto per causa e colpa del fascino irresistibile di Lola/Josè Maria Lo Monaco: gli spettatori hanno percepito perché gli ormoni di Turiddu si sono smossi facendogli perdere la bussola: sensuale, calda, sinuosa, quel «fior di giaggiolo» ci ha sedotti e catturati, tutti avremmo voluto essere Turiddu. Abbiamo apprezzato la Santuzza/Alex Penda ma adorato la Santuzza/Eva Maria Westbroek: potenza di voce e timidezza di corpo, ha saputo rendere magnificamente il disagio della inadeguatezza nel confronto con la prorompenza di Lola; ci ha commosso Lucia, vera madre siciliana (Elena Zilio, che è di Bolzano!) che ci ha saputo far vedere, teatro nel teatro, l’attesa del dramma visto dagli occhi della madre, con le sue domande che scrutano le mezze risposte, con l’angoscia di chi pre-sente ma nulla può fare per modificare il corso di un destino che spazza le vite con la forza di un fiume in piena.

Anche in Pagliacci canto e recitazione sono un tutt’uno; Leoncavallo è un grande, ma non all’altezza di Mascagni: c’è una ‘nervosità in Pagliacci, una sorta di ‘non finito’ musicale che crea nello spettatore/ascoltatore una sensazione di sofferenza che forse però aiuta la percezione del dramma passionale in atto. In Pagliacci troviamo un formidabile episodio di teatro nel teatro che il regista ha messo in scena dandogli una potenza indimenticabile; e qui risaltano il perfido zoppo Tonio / Scott Hendricks e lo stravolto dalla passione Canio/Carlo Ventre ma incanta Nedda/Aihoa Arteta, eroica nel suo tacere fino all’ultimo il nome dell’amato per proteggerlo dalla furia omicida di Canio; ma oltre ogni cosa ci ha incantato il coro, vero protagonista dell’opera: è il coro che ha sostenuto e appoggiato, passo dopo passo, l’arco drammatico dell’opera e che ha reso concreta e tangibile la coralità verghiana; prosit al nostro grande Martino Faggiani, che tiene alta la bandiera del talento musicale italiano.

Giovanni Chiaramonte

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