Serena conduce operaclassica eco italiano

Comunicato Stampa

 

Die Walküre di Richard Wagner in scena dal 16 al 29 aprile 2023

 Sul podio Dan Ettinger, regia di Federico Tiezzi

 

Jonas Kaufmann interpreta Siegmund: “Un ruolo che porto nel cuore”

 

 

Torna Die Walküre di Richard Wagner, titolo in programma dal 16 al 29 aprile per la Stagione Lirica 2022/2023 del Teatro di San Carlo.

Primo allestimento in scena nella sala restaurata sarà dunque il capolavoro wagneriano nella storica produzione con la regia di Federico Tiezzi, spettacolo vincitore del premio Abbiati per le scene di Giulio Paolini e i costumi di Giovanna Buzzi.

A dirigere l’Orchestra del Teatro di San Carlo sarà il direttore musicale Dan Ettinger.

 

In palcoscenico nei panni di Siegmund ci sarà Jonas Kaufmann che torna al San Carlo dopo l’Otello inaugurale della passata stagione.

“Sono molto felice di interpretare questo ruolo -afferma in Kaufmann -Siegmund è per me il vero eroe, fine ed elegante, che crede in sé e nella sua spada. È un ruolo che porto nel cuore  e che conosco già da tanti anni, mi ha aiutato a muovere i primi passi nel repertorio wagneriano. La musica poi è straordinaria, resta in testa sempre, anche dopo le prove”.

 

John Relyea sarà Hunding, Christopher Maltman interpreterà Wotan, Vida Miknevičiūtė sarà Sieglinde, Varduhi Abrahamyan darà voce a Fricka, Okka von der Damerau ricoprirà il ruolo di Brünnhilde (In calce la locandina completa).

 

Die Walküre è il secondo dei quattro drammi musicali che compongono la Tetralogia L’Anello del Nibelungo di Richard Wagner.

Composta tra il 1851 e il 1856, questa opera rappresenta un punto culminante nella carriera di Wagner, ed è stata celebrata come un’opera monumentale. Epica e commovente, rappresenta uno dei massimi esempi di teatro musicale del XIX secolo.

 

 

 

 

Guida all’ascolto

A cura di Daniela Tortora

 

Die Walküre, le declinazioni del femminile

 

 

Com’è noto, allo scadere del secolo decimonono l’onda lunga del wagnerismo in ascesa giunge a lambire le coste del Belpaese, culla e custode del melodramma, e a trovare in un vasto insieme di voci e formati la messa a punto di una teoria del nuovo corso possibile delle cose dell’arte, dal romanzo al dramma (d’Annunzio), dal quadro alla scenografia pittorica al cinema (oltre il naturalismo, la poetica degli stati d’animo da Previati a Boccioni, da Fortuny a Craig), dall’opera agli altri generi recuperati della musica d’arte. Maestro di riferimento sovra ogni altro è Wagner, proprio perché poetico e sinfonico al tempo stesso, almeno così nelle dotte parole di Alessandro Bustini (1876-1970), un eccellente didatta pianista e compositore italiano, poco o nient’affatto noto se non per le sue imprese di scuola (maestro di tanti maestri, tra i quali Petrassi, Giulini, Maderna).

«Per salvare il teatro bisogna distruggere il teatro», così si esprimeva agli inizi del Novecento la più idolatrata delle dive del palcoscenico, Eleonora Duse, onde farsi portavoce del vagheggiato rinnovamento della scena teatrale italiana (ma non solo), nonché di quel mutamento di orizzonte produttivo ed espressivo che comportò l’introduzione della regia e che, a ben guardare, nell’estetica del Gesamtkunstwerk wagneriano aveva la sua più clamorosa anticipazione: lo spostamento del baricentro dell’opera d’arte totale dal testo alla scena, vale a dire il fatto inaudito che l’evento teatrale non sia soltanto «il mezzo per rappresentare un’opera d’arte, la cui sostanza consiste nel testo poetico-musicale», bensì il vero e proprio oggetto estetico in funzione del quale poesia e musica sussistono in quanto meri strumenti, «fu una vera rivoluzione che lanciava una sfida tanto alla religione del testo, quanto ai pregiudizi sociali», gettando le basi per l’avvento del teatro di regia nel Novecento.

 

Esiti particolarmente significativi nella storia della comunità musicale napoletana tra Otto e Novecento si attribuiscono alla fortuna delle opere wagneriane allestite presso il Teatro di San Carlo a partire dal Lohengrin nel febbraio del 1881. Ancora prima di allora va segnalato lo speciale apostolato wagneriano esercitato da Giuseppe Martucci, primo interprete a tutti gli effetti della musica dell’illustre drammaturgo tedesco alla testa della compagine orchestrale di sua invenzione, la Società Orchestrale Napoletana, sorta, tra l’altro, sotto i buoni auspici della facoltosa comunità germanofona partenopea. La fortuna non soltanto scenica delle opere di Wagner si lega in maniera speciale alla figura e all’opera di Martucci, tra i più ferventi cultori italiani del sinfonismo d’Oltralpe e del Musikdrama wagneriano, unica eccezione contemplata dal musicista di Capua sul fronte del teatro per musica. La presenza di Martucci, tornato in pianta stabile a Napoli ai vertici del Conservatorio San Pietro a Majella a partire dal 1902, suggella nelle sue vesti direttoriali le due rappresentazioni wagneriane del 1907 e del 1908, vale a dire del Tristano e Isotta, già messo in scena per la prima volta in Italia, a Bologna, sotto la bacchetta martucciana nel 1888, e del Crepuscolo degli dei.

Va detto che le stagioni teatrali del San Carlo proprio in principio di secolo, a partire dal 2 gennaio 1900, si erano aperte nel segno di Wagner con un Tannhäuser affidato all’impresa Musella e alla direzione di Vittorio Mingardi, opera, tra l’altro, già comparsa nelle stagioni 1888-89 e 1889-90, così come accaduto per il Lohengrin nei cartelloni del 1895-96 e del 1901-02. Ciò non toglie che attorno al nome di Wagner e alla sua presenza in ambito sancarliano non si accompagnasse da sempre un vivace dibattito, tant’è che l’autorevole critico del «Mattino», Robert Forster, volle adoperarsi, proprio all’indomani della menzionata prima del 1901, per un definitivo superamento di dette polemiche: «Ormai sono passati i tempi in cui a proposito delle opere di Wagner si ripetevano le solite rancidissime e stupidissime facezie sulla musica dell’avvenire; questa è musica del presente e la più bella che ora si esegue in tutti i teatri del mondo».

Se la fortuna di Wagner si lega al grande mito fondativo della cultura musicale partenopea del Novecento, il mito già edificato in vita di Giuseppe Martucci, è facile attribuire alla perdurante orma del Maestro, ben oltre la sua scomparsa, nonché alla sua opera davvero seminale in tal senso, l’insistita apertura verso l’intero opus teatrale di Wagner, con una speciale incidenza esecutiva nel periodo tra le due guerre e la comparsa di ben otto titoli wagneriani a inaugurare le stagioni sancarliane nel periodo 1921-1932. Vale la pena di scorrere la cronologia del massimo ente lirico napoletano anche per individuare un dato più specifico inerente al nostro discorso: la comparsa precoce della Walküre nella stagione 1895-96 (e ancora nel 1910-11 e nel 1921-22), a precedere le altre tre unità della Tetralogia. Dopo la scomparsa del Maestro nel 1883 le opere di Wagner compaiono con cadenza regolare nella programmazione sancarliana sino al compimento dell’intero ciclo del Nibelungo con L’Oro del Reno nel 1912 e con il Sigfrido nel 1922 (segnalo, in aggiunta, I Maestri cantori di Norimberga, già programmati da Martucci nel 1909, Parsifal nel 1921 e, infine, l’Olandese volante nel 1949, a chiudere il cerchio del tempo giacché l’ouverture dell’Olandese compariva già nel concerto inaugurale dell’Orchestra martucciana del 1880).

Non c’è da sorprendersi poi troppo se qualche decennio più in là, nel prospettare i tratti fondamentali di una propria drammaturgia musicale difettiva, sprovvista di libretto e di personaggi cantanti, giacché questi compaiono nella dimensione della pura visione, Francesco d’Avalos (1930-2014), principe musico napoletano, ma di culto germanico, rinnovava l’adesione ai precetti del Musikdrama wagneriano, chiarendo ancora una volta le ragioni e le radici del motore sinfonico del teatro per musica dell’idolo tedesco: «La complessità della trama e la profondità dei significati sono già complicati e difficili alla lettura del libretto, ma certamente ancor più oscuri se si tenta di comprenderli durante lo spettacolo musicale, anche nell’ipotesi assurda che si riescano a decifrare tutte le parole che sostengono il canto. Per tali ragioni anche l’Opera è stata assorbita nell’idea di Musica Assoluta (anche se difatti si presenta solo come un’attuazione ibrida di questa idea) in quanto la costruzione musicale, prevalendo sul libretto, si afferma come struttura autonoma». Ed è il traguardo ribadito più volte dalla letteratura critica: se in Opera e dramma veniva contestato il fraintendimento di ruoli e dati (la musica come la poesia sono dichiarati «mezzi» dell’espressione, mentre è l’azione a divenire identificativa dell’opera d’arte totale in quanto «dramma»), a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, grazie alla accresciuta consapevolezza circa la matrice sinfonica (e beethoveniana) dei suoi drammi, Wagner getta le premesse per il recupero del primato della musica, capace essa sola di esprimere l’intima essenza dell’azione, al punto da suggerire per i suoi manufatti la denominazione di «azioni della musica fattesi visibili».

 

Nell’autunno del 1848, terminato Lohengrin, Wagner lavora alacremente ad un nuovo progetto spettacolare per un’opera dedicata alla morte di Sigfrido (Siegfrieds Tod), il cui abbozzo prefigura già diffusamente quello che diverrà nell’impresa definitiva la Götterdämmerung (Il Crepuscolo degli dei). Di lì in poi il percorso si fa assai più accidentato per il profilarsi di altri progetti, ma anche per via della adesione alla rivoluzione di Dresda e, a seguire, dell’esilio in Svizzera. Attorno alla metà del secolo, quasi a fare da spartiacque tra la sua produzione romantica e il compimento dei Musikdramen nei decenni avvenire, completa la stesura dei suoi più importanti contributi teorici di teoria politica, di teoria dell’arte e dell’opera: Die Kunst und die Revolution (L’arte e la rivoluzione), Das Kunstwerk der Zukunft (L’opera d’arte dell’avvenire), Oper und Drama (Opera e dramma). Congiuntamente alla riflessione teorica ritorna al progetto del Siegfrieds Tod, con la stesura definitiva del libretto, e l’avvio di quel processo di espansione a ritroso della vicenda drammatica al fine di dare flagranza scenico-rappresentativa al complesso antefatto, piuttosto che affidarlo alla semplice narrazione da parte dei personaggi. Stende dapprima il libretto dell’opera dedicata alla giovinezza di Siegfried (Der junge Siegfried; più tardi, quest’ultimo e il rimaneggiato Siegfrieds Tod verranno intitolati rispettivamente Siegfried e Götterdämmerung), a seguire quelli dei primi due drammi, il prologo Das Rheingold (L’Oro del Reno) e la prima giornata Die Walküre. La messa in musica, realizzata a partire dal novembre 1853, segue invece grosso modo l’ordine della vicenda rappresentata, ma si interrompe per circa un decennio (dal 1857 in poi) all’altezza dell’atto secondo del Siegfried per via del ciclone tristaniano, che impegnerà il drammaturgo, sull’onda dell’infatuazione concettuale per gli scritti di Schopenhauer e di quella amorosa per Mathilde Wesendonk, nel concepimento dell’opera di culto che celebra la verità della notte e la redenzione possibile nella morte d’amore (Tristan und Isolde). Solo dopo aver portato a termine Die Meistersinger von Nürnberg (1961-67), Wagner riprende e completa la composizione del Siegfried (1869) e della Götterdämmerung (1874), ben oltre vent’anni dopo la sua ideazione, a riprova e conferma – ove mai fosse necessario – di un’impresa monumentale e definitiva.

 

Come a più riprese è stato sottolineato, le diverse parti del Ring des Nibelungen (a sua volta ispirato ad una silloge di fonti medievali, norvegesi islandesi e tedesche) appartengono a modelli e codici espressivi differenti e alterni; più in particolare, Die Walküre si fonda sulla struttura e sui nessi problematici della tragedia classica (contrapposta alla struttura eminentemente fiabesca del Siegfried): «La tragedia è un genere letterario caratterizzato dalla dialettica fra le contraddizioni interne dei personaggi, dallo scontro fra opposte legittimità: Wotan, Fricka, Brünnhilde, Hunding, Siegmund e Sieglinde erano i protagonisti di una vicenda in cui il conflitto non è tanto fra ‘buoni’ e ‘cattivi’, bensì fra esseri irretiti nelle maglie di una situazione intrinsecamente malata». Qui più che altrove, insiste Francesco Orlando, «l’ininterrotta, dolorosa, a momenti ‘classica’ nobiltà di stile musicale, e il trattamento così spesso intimo e ‘cameristico’ dell’orchestra nel silenzio significativo delle voci, rendono Die Walküre tributaria d’una poetica della tragedia – dopo la perfetta tragicommedia che era L’Oro del Reno, e ancor più di quanto non voglia la formidabile alternanza che farà un’altra tragicommedia del Sigfrido e un’altra tragedia del Crepuscolo degli dei».

 

La costellazione dei personaggi all’interno della prima giornata del Ring e la loro alterna comparsa nel corso del Musikdrama possono essere così schematizzate:

 

Atto I                    Scena 1: Siegmund, Sieglinde

Scena 2: Siegmund, Sieglinde, Hunding

Scena 3: Siegmund

Scena 4: Siegmund, Sieglinde

 

 

Atto II                   Scena 1: Wotan, Brünnhilde, Fricka

Scena 2: Brünnhilde, Wotan

Scena 3: Siegmund, Sieglinde

Scena 4: Brünnhilde, Siegmund

Scena 5: Siegmund, Sieglinde, Hunding, Brünnhilde, Wotan

 

Atto III                 Scena 1: le Walkirie, Brünnhilde, Sieglinde

Scena 2: Wotan, le Walkirie, Brünnhilde

Scena 3: Brünnhilde, Wotan

 

La distribuzione delle voci (ovvero delle parti) annuncia la significativa insistenza nel corso del dramma sul dialogo a 2, con alcune singolari ricorrenze da evidenziare: si badi alla comparsa dell’antagonista della coppia amorosa, Hunding, nel corso dell’atto primo e a quella analoga, sebbene rovesciata di segno, nella prima parte dell’atto II con l’odiosa comparsa della dea sposa di Wotan, autoritaria custode dei vincoli familiari, giunta «sopra un carro tirato da due arieti» a interrompere il dialogo tra il padre e la figlia Brünnhilde; infine, alla chiusa dell’atto I con l’estasi amorosa che travolge i fratelli gemelli Siegmund e Sieglinde, avvolti dalla complice notte primaverile, lunare e stellata, e all’altra notte, quella lugubre e infinita del sonno in cui precipita Brünnhilde per effetto della punizione paterna.

Altrettanto istruttivo è l’infittirsi delle didascalie sceniche nella progressiva conquista degli spazi esterni: l’atto I ha luogo quasi per intero in un luogo chiuso, «l’interno di un’abitazione, intorno ad un robusto tronco di frassino, che sta nel mezzo, e una sala dalle pareti di legno», ove sul finire dell’atto, quasi fosse un personaggio inatteso quanto desiderato, si affaccia l’esterno di una «[…] splendida notte primaverile, la luna piena illumina l’interno e getta la sua chiara luce sulla coppia che così si può vedere in piena limpidezza».

L’atto II è l’atto guerriero: siamo al cospetto di un’«aspra e selvaggia catena di monti. Nello sfondo, salendo dal basso, si intravede un burrone che sbocca su di un elevato giogo roccioso; da questo, il terreno va declinando sino al proscenio» ove Wotan e Brünnhilde, armati sino ai denti, annunciano con i loro costumi di scena l’esito fatale della peripezia: sono due giganti, due personaggi divini sotto mentite spoglie umane, qui giunti a indirizzare le sorti del mondo terreno anche attraverso la loro complicità colma di affetto parentale. Se nell’atto I è la voce maschile di Hunding, lo sposo non amato di Sieglinde, ad accendere il conflitto e a far precipitare l’estasi amorosa degli amanti, la disposizione a chiasmo (rispetto all’atto precedente) della prima parte dell’atto II prevede l’uscita in scena di Fricka, antagonista femminile della coppia padre/figlia, nonché chiave di volta ai fini della costruzione della peripezia, con il richiamo indirizzato a Wotan al rispetto della legge e alla punizione dell’amore incestuoso tra Siegmund e Sieglinde.

Il precipitare degli eventi si compie in maniera additiva nell’atto di mezzo e con furor crescente a partire dal cedimento dei sensi di Sieglinde per il sopraggiungere di Hunding, annunciato dallo sciagurato suono del corno, e, a seguire, di Wotan, con l’uccisione di Siegmund da parte di Hunding (la spada salvifica Nothung, la spada nel tronco di frassino, estratta con impeto da Siegmund sul finire dell’atto I, va in frantumi per volere di Wotan ed espone l’amato figlio impotente alla furia omicida dell’avversario).

Ben prima di allora si situa l’annuncio di morte contenuto nello sguardo di Brünnhilde a decretare l’inizio della fine per Siegmund: non può avere scampo chi cade vittima dello sguardo della divina guerriera e non può che essere destinato a sicura morte, anche allorquando la Walkiria cederà con trasporto alla commozione e lascerà intendere di volersi adoperare per la salvezza degli amanti, entrambi figli di Wotan. Il destino di Siegmund è segnato e la disubbidienza al volere paterno da parte di Brünnhilde, vana quanto tardiva, servirà soltanto ad annunciare anticipatamente la seconda tappa della catastrofe che chiude l’atto III e l’intera prima giornata.

È l’ultima scena dell’atto II, e ciò che immediatamente la precede nel libretto, a esibire un’eccedenza dell’apparato didascalico, ove si va precisando il precipitare degli eventi nella pantomima che conduce alla consumazione dell’orrendo delitto.

 

 

Ragioni di buona contiguità drammatica inducono il musicista librettista di sé stesso a costruire l’atto ultimo a partire dall’esaltazione canora, ignara e polivoca, delle Walkirie (le otto figlie di Wotan, sorelle di Brünnhilde), capaci con la trama caleidoscopica delle loro intonazioni di dare vita ad uno spazio/tempo inaudito all’interno del dramma, e quasi un unicum nella storia dello spettacolo cantato, almeno sino a quel momento (le otto donne, sia pure coralmente raccolte, costituiscono altrettante vere, distinte e nomate personalità femminili, i cui richiami energici distribuiti nello spazio scenico amplificano di molto il portato del racconto orchestrale, qui come altrove imbastito mediante l’intreccio dei motivi tematici). Tuttavia lo scenario ingombro di nuvole è anche stavolta presago e funesto, annunciatore di ben altre sciagure in procinto di abbattersi «sull’orlo delle rocce»: dal tripudio corale e strumentale (l’arcinota Cavalcata) alla solitudine degli sconfitti il passo è breve ed è questa la parabola che riassume l’ultimo tratto della catastrofe. Brünnhilde ha sbagliato, giacché per umanità e sensibilità ha tradito la volontà del padre, mettendo a rischio la difesa della legge; Wotan, pur artefice di un progetto avveniristico e rivoluzionario (la creazione di un mondo di uomini liberi), giunge a concepire «un singolare sdoppiamento, o spersonalizzazione, o negazione dell’io: […] uscire da sé stesso restando necessariamente sé stesso, e porsi quale soggetto altro senza che un altro soggetto oggettivamente ci sia»,[1] a tal punto soggiogato dalla legge da rinunciare ai suoi affetti più cari. Irrompe furente sul finire della prima scena dell’atto III, intimando «Ferma, Brünnhilde», mentre le Walkirie, sirene armate e sconfitte, tentano invano di nascondere con i loro corpi la sorella.

 

 

Ciononostante, la Walkiria ribelle esce alla scoperto e si offre al padre, pronta ad accogliere la punizione fatale («Qui sono, padre: la pena m’imponi!») ed è in questo luogo così spoglio, così desolato, della scena II dell’atto ultimo, che si raccoglie la dolorosa agnizione di Brünnhilde, non più identificabile come la creatura divina nata a immagine e somiglianza del padre Wotan, bensì come una donna infragilita, in procinto di essere esposta all’oltraggio degli avventori:

 

Wotan

Te pria non punirò

Che non t’abbia punita da te. […]

Eri il mio desir,

desiato hai tu contro me!

Scudo m’eri tu:

tu levato l’hai contro me

Il fato a me sceglievi tu:

contro me scegliesti il fato.

Incitavi gli eroi per me:

contro me sospinto hai tu gli eroi!

Qual fosti un dì, detto t’ha Wotan;

qual ora tu sia, tu stesso dei dir!

Figlia non mi sei più: Walkiria tu se’ stata:

per sempre or sii quel ch’ora sei tu!

 

Da questo tempo/luogo estremo, cui peraltro allude la didascalia conclusiva della scena III,2,

 

 

 

si leva l’ultima intonazione corale delle Walkirie: prone al volere paterno, «si allontanano una dall’altra con grida selvagge di dolore» ed è l’issarsi di una vera e propria parete di suono, cangiante e mobile a un tempo, a generare la vertigine affettiva che prepara l’ultimo tratto del dramma, la riconciliata confessione di Wotan a Brünnhilde, che «dolcemente [va] esaurendosi tra le sue braccia».

È ancora notte ormai al termine della prima giornata, ma un’altra notte, tanto più cupa e severa rispetto a quella che aveva accolto complice e luminosa l’abbraccio dei fratelli amanti al termine dell’atto I. Qui la notte raddoppia nel suo volo lo stato d’animo di Wotan, che non accetta perorazione alcuna e ricusa gli inutili attacchi della figlia che lo dichiara servo del volere della sposa Fricka, e pronto contro natura a privarsi dell’amatissimo figlio Siegmund. È pura agnizione, svelamento di una verità profonda: Wotan è costretto a guardarsi dentro e ad ammettere il fondo oscuro dei suoi desideri («Oprato hai ciò che bramavo io stesso oprar; quando a nulla oprar sforzava me il destin? […] Che contro di me io me stesso volgevo, e dal dolor dell’impotenza affranto, avida brama e furibondo ardor mi rodevano il sen, fra le rovine del mondo mio al mio duolo eterno por fine […]»). Ciononostante, il castigo è ineludibile e fatale.

 

Lo scacco del padre contiene l’essenza tragica dell’intera giornata e si compie – lo si ripete − in due tempi, con l’uccisione del figlio adorato Siegmund al temine dell’atto II e con la punizione del sonno invalicabile inflitta a Brünnhilde, tra tutte le Walkirie la figlia prediletta, con il solo nostalgico auspicio che il fuoco protegga il lungo sonno dall’attraversamento da parte di cavalieri inetti («Chi di mia lancia la punta teme non possa il foco mai passar!» recita l’ultima intonazione di Wotan prima del congedo).

Il tratto marcatamente femminile − sia pure di un femminile androgino, volitivo ed eroico, ‘l’altra metà’ del Ring potrebbe dirsi, ovvero di questo dramma monumentale intessuto di drammi − risalta quale cornice della prima giornata a partire dall’intitolazione (per l’appunto, Die Walküre), ma ancor di più dai nessi problematici via via emersi nel corso del conflitto, e sempre e ovunque legati al femminile e alle sue proiezioni all’interno della stretta cerchia degli affetti familiari. Il femminile come molteplice, pur sempre vincolato al nucleo familiare di appartenenza quale sua emanazione diretta e naturale (sorella/fratello; figlia/padre; sposa/sposo, sorelle), è al centro della riflessione drammaturgica di Wagner in questo dramma e incarna la progressiva inevitabile divaricazione a partire dall’unità indistinta originaria, preistorica dirà Orlando (e si badi, tra tutte, alla scissione terminale e definitiva dei destini di Wotan e Brünnhilde).

La ‘psicopatologia della vita quotidiana, per dirla con lessico freudiano, procura un’inclinazione particolare degli affetti e della questione del potere all’interno di questa unità della Tetralogia, che va configurandosi come una sorta di prologo in terra, dopo il prologo in cielo (o nelle acque, per così dire) dell’Oro del Reno, giacché scaturisce dalla caduta degli dei sulla terra (ancora una venuta, almeno in parte prefigurata dalle Sacre Scritture), capaci di assumere sembianze di donne e uomini per divenire il motore delle cose terrene e celesti.

Il racconto diluito del complesso antefatto, il procedere a volte lento e dilatato, altre volte serrato e acceso, dei dialoghi a 2 che impegnano larga parte del tessuto drammatico-musicale (lo si è visto), il carattere dimesso, privato del discorso che intrecciano tra loro i membri della inquieta famiglia di dei ed eroi, tutto ciò ci permette forse di cogliere le ragioni che dettarono, e continuano a dettare, l’accoglimento della Walküre sulle piazze italiane proprio in ragione di quel femminile, in quanto proiezione e sintesi di ogni possibile epifania familiare e dunque di potere, non così distante dopotutto, se sottratto al movente drammaturgico e ideologico di marca germanica, alle funzioni-cardine della storia del melodramma coevo.

 

 

Teatro di San Carlo
domenica 16 aprile 2023, ore 17:00

giovedì 20 aprile 2023, ore 18:00

domenica 23 aprile 2023, ore 17:00

mercoledì 26 aprile 2023, ore 19:00

sabato 29 aprile 2023, ore 19:00

 

Richard Wagner

DIE WALKÜRE

Opera in tre atti

Musica e libretto di Richard Wagner

 

Direttore | Dan Ettinger

Regia | Federico Tiezzi

Scene | Giulio Paolini

Costumi | Giovanna Buzzi

 

Interpreti

Siegmund | Jonas Kaufmann

Hunding | John Relyea

Wotan | Christopher Maltman

Sieglinde | Vida Miknevičiūtė

Fricka | Varduhi Abrahamyan

Brünnhilde | Okka von der Damerau

Gerhilde | Regine Hangler

Helmvige | Nina-Maria Fischer

Ortlinde | Miriam Clark

Waltraute | Margerita Gritskova

Rossweisse | Marie-Luise Dreßen

Seigrune | Julia Rutigliano

Grimgerde | Edna Prochnik

Schwertleite | Christel Loetzsch 

 

♭ debutto al Teatro di San Carlo

 

Orchestra del Teatro di San Carlo

Produzione del Teatro di San Carlo

 

 

Con gentile preghiera di pubblicazione e/o diffusione

Rossana Russo,

Responsabile della comunicazione creativa e strategica e relazioni con la Stampa

r.russo@teatrosancarlo.it

cell 3357431980

 

Giulia Romito,

Comunicazione e Stampa g.romito@teatrosancarlo.it 0817972301

Sabato 15 Aprile 2023 ore 12

Cafè del Teatro San Carlo

 

Presentazione del volume

The Last Days of the Opera
Die letzten Tage der Oper

a cura di Denise Wendel-Poray, Gert Korentschnig, Christian Kircher

Un’importante antologia dedicata all’opera lirica curata dai maggiori specialisti del settore.
Riflessioni critiche su presente e futuro dell’opera come forma d’arte. Il titolo The Last Days of the Opera si ispira al dramma epico The Last Days of Mankind (Gli ultimi giorni dell’umanità) di Karl Kraus, pubblicato integralmente nel 1922. L’autore mette in ridicolo i mali interconnessi della modernità che, a suo avviso, alimentano la macchina della guerra (nazionalismo, capitalismo, tecnologia sfrenata, militarismo, spregiudicatezza giornalistica) e la scena culturale viennese dell’epoca. Il dramma presenta agghiaccianti parallelismi con il nostro mondo nel 2022. L’obiettivo dell’antologia The Last Days of the Opera, che comprende circa 100 saggi, è quello di considerare la rilevanza dell’opera lirica nel mondo distopico di oggi e di guardare ai possibili sviluppi del genere nel prossimo futuro.

Tra gli autori del libro figurano professionisti dell’opera (cantanti, registi e direttori d’orchestra), oltre a personalità di altri settori, come filosofi, artisti, registi e attori quali Marina Abramovic´, George Benjamin, Stephan Braunfels, Robert Carsen, Martin Crimp, Bernard Foccroulle, Philippe Jordan, Jonas Kaufmann, William Kentridge, Christian Lacroix, Jan Lauwers, Katie Mitchell, Riccardo Muti, Hans Ulrich Obrist, Denis Podalyclès, Thaddaeus Ropac, Matthias Schulz, Robert Wilson, Laurie Anderson, Amira Casar e Tilda Swinton.

The Last Days of the Opera presenta un ricco apparato iconografico di opere originali di artisti famosi, in particolare del celebre scenografo Richard Peduzzi.
Denise Wendel-Poray è una scrittrice, critica, giornalista e curatrice canadese-francese. Laureata presso le università di McGill e Yale, con Skira ha pubblicato Painting The Stage: Artists as Stage Designers (2019). Gert Korentschnig, giornalista, autore e critico musicale, è vicecaporedattore della casa editrice KURIER di Vienna e direttore di KURIER am Sonntag. Christian Kircher è direttore esecutivo della Bundestheater-Holding GmbH di Vienna.

 

L’ingresso all’incontro è libero fino ad esaurimento dei posti disponibili.

 

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