L’ULTIMA LUCE

Carlo Di Stanislao

Spagyria del Divino che si fa Umano per tornare al Divino

«E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.» — Giovanni 1,14

Nella penombra dell’Ultima Cena, quando il giorno si ritira e le lampade tremano come respiri antichi, lo spazio si fa sacro. Il tempo si curva, i gesti si caricano d’eterno. Il Cristo, figlio della polvere e del Cielo, siede fra dodici volti, sapendo che nessuno comprende davvero.

Le sue mani — che hanno guarito, benedetto, accarezzato — ora spezzano il pane:
«Questo è il mio corpo, dato per voi.»
Il pane si frantuma come il velo del tempio. È carne divina offerta come chiave per l’invisibile. È verbo fatto sostanza, amore che si spezza per moltiplicarsi.

Il vino riempie i calici come sangue di stelle:
«Questo è il mio sangue, versato per voi e per molti.»
Scorre rosso, vivo, ardente. È la vita che si dona prima ancora che sia tolta. Non è solo bevanda, è alchimia del patto, sigillo del passaggio, profezia che danza nei cuori.

I discepoli ascoltano, ma i loro occhi sono ancora velati dal sonno del mondo.
Giuda ha il cuore carico di tenebra. Pietro, pronto al giuramento, trema già nell’anima.
Eppure il Cristo li ama tutti, con l’amore che conosce il tradimento e lo abbraccia.
In quella cena si consuma la prima morte: quella dell’illusione.

Alchimia della Cena: Nigredo, Rubedo e la Spagyria del Mistero

L’Ultima Cena è l’Opera Alchemica per eccellenza: Nigredo e RubedoMorte e Rinascita.
È Zolfo, fuoco del Verbo incarnato.
È Mercurio, parola fluente, spirito che unisce.
È Sale, corpo e sostanza, pane che nutre e ricorda.

In ogni gesto si compie la Spagyria: la separazione del divino e dell’umano, per purificarli, trasmutarli e riunirli in una forma nuova, gloriosa.
È il Dio che si fa uomo, per insegnare all’uomo la via del ritorno.

La Cena è il crogiolo, la tavola è l’altare. Il Cristo è l’alchimista e l’elemento sacrificale.
Tutto è simbolo e realtà, presenza e profezia.
Là inizia la dissoluzione. Là inizia la resurrezione.

La Paura che suda sangue — Il Getsemani

Poi viene la notte. Il buio vero. Il tempo del silenzio.

Nel Getsemani, tra ulivi antichi e radici che ascoltano, il Cristo è solo.
Totalmente solo.
Non con i discepoli addormentati, non con il mondo che lo attende.
È solo con Sé stesso.
È solo con il suo Spirito Creatore.

E la paura lo visita. Non la paura dell’uomo fragile, ma quella del Dio che accetta di disfarsi.
La paura che sa tutto e accetta tutto.
Una paura divina, sacra, cosmica.
Una paura che suda sangue.

«Padre, se è possibile, passi da me questo calice…»
Eppure lo beve. Lo accetta. Lo assume come materia dell’Opera.
Il Getsemani è la camera oscura dell’alchimia dell’anima.
Lì il piombo del timore si muta nell’oro dell’obbedienza.

Lì l’Io si arrende al Tutto.
Lì la carne si inchina allo Spirito.
Lì il Creatore, nel Figlio, dialoga con Sé stesso, e tace, e ama.

Ogni anno vengo al tuo sepolcro

di Italo Nostromo

Ogni anno vengo al tuo sepolcro
e prego per la tua luce.
Non per svegliarti,
non per strapparti al tuo silenzio,
ma per ricordare che hai parlato
con gesti, più che con parole.

Ti cerco nel pane spezzato,
nelle mani stanche dei fratelli,
nel vino rosso che sa di ferite,
nel buio delle mie notti
che portano il tuo nome.

E ogni volta mi rispondi
senza voce — con la brezza,
col calore che trema
tra la paura e la fede.
Con la dolcezza di un’assenza
che è presenza più viva del ricordo.

Ogni anno vengo al tuo sepolcro
non per piangere,
ma per imparare
che la luce non muore
quando ama abbastanza
da farsi notte.

E io, povero uomo del tempo,
ti porto fiori e silenzi,
perché so che tornerai
in ogni gesto che ama,
in ogni cuore che perdona,
in ogni vita che si spezza
per dare vita.

E per ringraziarti del dono che mi hai dato:
quello di curare oltre il buio
di un cuore umano
che pecca e che trema. 

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