Mario Fratti, cittadino del mondo, aveva due grandi amori: New York e L’Aquila
Ha avvicinato come pochi l’Italia e gli Stati Uniti attraverso il teatro
Il 12 luglio scorso, a L’Aquila, presso il Gran Sasso Science Institute – uno dei 7 centri universitari di alta formazione riconosciuti dal Ministero per l’Università e la Ricerca – si è tenuto il Mario Fratti Memorial per ricordare il grande drammaturgo di origine aquilana recentemente scomparso a New York, con la presentazione del volume «Il mondo di Mario Fratti» di Goffredo Palmerini (One Group Edizioni). Tra le numerose testimonianze portate in presenza e da remoto quella di Mariza Bafile, giornalista scrittrice e già Parlamentare italiana eletta nella circoscrizione estera Sud America, che da anni vive tra New York e Madrid. Qui di seguito il testo del contributo.
Caro Mario,
il tuo amico fraterno Goffredo Palmerini mi ha chiesto di partecipare al memoriale che sta organizzando per te nella tua amata città l’Aquila. Ho iniziato a scrivere attingendo ai ricordi ma non posso, mi dicono che sei morto. Che cosa assurda. Mi oppongo con tutta me stessa a questa idea e allora ti scrivo. E mentre ti scrivo mi piace immaginarti seduto su una nuvoletta a guardare noi con quell’immancabile sorriso ironico che balla nei tuoi occhi, con quella curiosità insaziabile con cui seguivi anche i più piccoli dettagli dell’animo umano per poi restituirli al mondo mimetizzati nei personaggi delle tue opere.
No, una persona come te non può morire perché tu resti lì, nelle parole scritte durante tutta la tua vita, nei personaggi con cui condividevi notti e giorni di pensieri, di dialoghi, di schermaglie, schermaglie che il più delle volte vincevano loro.
Per me, che ho sempre considerato le parole le mie migliori amiche e i libri una tavola di salvezza disposta a sostenerti anche quando ti senti trascinare via dalle onde della vita, entrare in casa tua significava uscire dal mondo reale per entrare in un’altra dimensione, magica, diversa, avvolgente, a tratti spaventosa perché era una La-La Land, dalla quale sarebbe stato facile lasciarsi ingoiare, per poi percorrerne i sentieri scritti, disegnati, dipinti, dalla fantasia di altri che avevano costruito per noi il paese della creatività, dell’immaginazione, del gioco del pensiero.
Quel tuo edificio austero a due passi da Saint Patrick, l’ascensore che portava al tuo pianerottolo, con quel signore impettito che chiudeva il cancello a soffietto con una serietà che si scioglieva in un ampio sorriso quando ti vedeva, e poi… poi al varcare la tua porta si entrava in un labirinto di carte, libri accatastati, dipinti, locandine di spettacoli, manifesti. Un mondo di carte con minimi spazi per quei tanti amici che accoglievi con un entusiasmo e una vitalità che ti invidiavano tutti, me compresa.
E poi lì, seduta, anzi sprofondata, in quel tuo divano morbido attorniato anch’esso da libri, ti ascoltavo lasciando in strada qualsiasi problema che in quel contesto sfumava lontano. Ritrovavo il sorriso, la risata schietta, l’emozione mentre parlavi del tuo lavoro, dei tuoi incontri, delle lucciole a New York, dell’Aquila, o mentre ricordavi mio padre con il quale avevi condiviso gli ideali dell’antifascismo e l’amore per la cultura. Una volta mi hai suggerito di registrare la sua voce, per portarla sempre con me. Un consiglio meraviglioso.
Mi mettevi alla prova chiedendomi come avrei concluso una delle opere che stavi per terminare, e poi, con una generosità unica, mi regalavi manoscritti firmati che conservo gelosamente. Sei stato sempre cittadino del mondo ma avevi due grandi amori: New York e L’Aquila. Due realtà completamente diverse che ti appartenevano senza contrasto alcuno. Hai avvicinato come pochi l’Italia e gli Stati Uniti attraverso il teatro, hai aperto cammini ai giovani talenti italiani il cui percorso sarebbe stato molto più arduo senza il tuo generoso sostegno.
Hai insegnato durante tanti anni e anche dopo non hai mai smesso di dare idee, suggerimenti, di aiutare scrittori, direttori, attori. Un tuo consiglio che ho conservato gelosamente è quello di scrivere la fine di una storia prima ancora dell’inizio. “In questo paese non sanno concludere le storie” ripetevi e ogni volta che vedo una serie americana in televisione ricordo le tue parole perché invariabilmente i finali sono fiacchi, banali. Scrivere la fine con l’entusiasmo dell’inizio è come accendere una luce alla fine di un tunnel. Non sai quanto ti sia riconoscente per questo consiglio.
Eri così puntiglioso con le parole. Cercavi fino a stancarti il termine giusto che indicasse in italiano e in inglese ciò che volevi dire. Due lingue nelle quali ti immergevi con uguale sicurezza e conoscenza. Ogni tua opera aveva due versioni scritte da te e poi viaggiavano per il mondo in idiomi diversi e contesti altri. Ma il messaggio restava. Il tuo modo irriverente di guardare al mondo, quell’ironia corrosiva verso la banalità, l’arroganza del potere, le limitazioni piccolo-borghesi e di contrasto lo sguardo complice verso la fragilità dell’essere umano, tracciano il percorso di un intellettuale che non ha mai barattato la sua integrità per medaglie o guadagni.
Hai assaporato la fama, hai avuto premi, riconoscimenti, hai conosciuto i più bei nomi della letteratura, del teatro, della musica e del bel canto, ma nulla ti faceva più felice del sederti in una sala di teatro e aspettare quel magico momento in cui si spengono le luci e inizia lo spettacolo. Vedere un’opera teatrale accanto a te era un’esperienza unica. Mentre sul palcoscenico si avvicendavano gli attori tu dimenticavi il mondo intorno a te, ti immergevi nella storia, con tutto te stesso, il corpo teso, la mente attenta. In quei momenti si percepiva quanto grande e profondo fosse il tuo amore per il teatro.
La tua vita era lì, in quelle sale semioscure con poltroncine più o meno comode, lì su quei palcoscenici i cui drappeggi di velluto, nel silenzio assoluto, si aprivano per lasciarci entrare nelle vite parallele costruite da chi ama aggiungere mondo al mondo con la sua creatività. Poco ti importava se fossero opere rese famose dai palcoscenici di Broadway o se invece si presentassero in sale più piccole di off Broadway. Anzi amavi di più l’off Broadway perché dicevi che era lì, in quelle sale più piccole e meno conosciute dai turisti, dove si svolgeva il vero teatro, quello che scaturisce dalla ricerca, dalla sperimentazione, dalla passione. Lì erano le tue amiche e i tuoi amici, lì i tuoi amori e lì ha trovato il suo spazio Valentina, la figlia di cui parlavi sempre con ammirazione.
Caro Mario, non credere di poterti nascondere. Ti vedo sai? e vedo il tuo sorriso, vedo quel tuo sguardo acuto che sapeva leggerti dentro. Sono sicura che avrai già riempito di carte la nuova dimensione in cui ti trovi. Su cosa stai lavorando ora? Hai già scritto la fine?
Ti abbraccio
Mariza