Pierfranco Bruni
La cultura materiale e la testimonianza immateriale sono elementi di un bene antropologico che scava nelle esistenze dei popoli. Popoli che sono la espressione di civiltà.
L’antropologia si «struttura» sulle civiltà e dà voce a manifestazioni di eredità che, a loro volta, si identificano con processi identitari. Annabella Rossi è una antropologa la cui ricerca nasce all’interno di una archeologia preistorica che trova il suo incipit nelle prime dimensioni di un materiale rupestre che offre una sua chiave di lettura nel «visionario» dei modelli culturali.
Occorre, in questi casi, proporre una lettura chiaramente comparata in cui lo status archeologico interagisce con un antropos che rimanda al linguaggio iconico vero e proprio. Ovvero al linguaggio delle immagini.
Una grotta è dato materiale chiaramente. Ciò che si trova sulle pareti delle rocce si propone con un linguaggio e una interpretazione tridimensionale: lettura, comparazioni, interpretazioni.
Gli scritti di Annabella Rossi partono, appunto, da una esperienza prettamente materiale sino ad arrivare a una cultura dei saperi popolari. I quali restano patrimonio immateriale. Infatti il suo studio sul tarantismo è una valenza in cui la gestualità e la parola costruiscono l’essenza determinante della sua ricerca.
In questo si inserisce la fotografia, che è una componente arricchente come la nenia, la fabula, la parole. È qui che la tradizione del recupero e del ricordo assume una forte centralità.
A questo si aggiunge la metafora introspettiva anche sul piano psicologico. Da Ernesto De Martino a Franco Basaglia il legame ha una potente entratura proprio in quella tipicità antropologica dello sguardi e del sonoro.
Oltre a De Martino, uno dei maestri principali resta Luigi Lombardi Satriani.
Certo l’antropologia americana è stata una aprì pista, ma il ruolo della cultura mediterranea del Sud dell’Italia ha giocato una partita singolare in cui il territorio è la chiave proponente dell’intero processo e itinerario etno demografico e demologico.
Tra gli scritti di Annabella Rossi vanno menzionati:
«Oreficeria popolare italiana» (in collaborazione) del 1963, «Osservazioni sui canti d’argomento religioso non liturgici» (in collaborazione) del 1965, «Le feste dei poveri, (in collaborazione) del 1969. Poi la famosa «Lettere da una tarantata» del 1970, e con Lello Mazzacane, «Miseria e follia: il morso della tarantola» del 1971.
Con Ferdinando Scianna ha scritto «Il glorioso Alberto» del 1971. Con Luigi M. Lombardi Satriani ha scritto «Calabria 1908-10: la ricerca etnografica di Raffaele Consoli del 1973. Con Roberto De Simone è da menzionare «Carnevale si chiamava Vincenzo» del 1977. Con Gianfranco Mingozzi e Claudio Barbati si sottolinea «Profondo Sud: viaggio nei luoghi di Ernesto De Martino a vent’anni da Sud e magia» del 1978. Nell’anno della scomparsa esce «Pani e dolci devozionali – siciliani e calabresi».
Campania, Basilicata, Puglia e Calabria restano i filtri e i fulcri delle sue profonde conoscenze. Ma anche di una consapevolezza etno antropologica. Gli oggetti e gli uomini. Sono radicamento di civiltà. In questo radicamento il pensiero di Rossi trova la sua originalità in una sperimentazione umanistica dell’antropos tout court.
L’antropologia assorbe la tradizione e si manifesta come realtà non nella storia, bensì nella conoscenza in un rapporto tra ritualità e mito. Infatti rito e mito sono la vera «certezza» dei popoli che resistono all’urto con la modernità.
La memoria dei popoli è un ricordare di un passato in cui tradizione e antropos si intrecciano. Annabella Rossi era nata nel 1933 e morta nel 1984. Siamo a quarant’anni dalla scomparsa. La mostra di Lecce è un caposaldo del viaggio che Annabella Rossi ha compiuto. Ha aperto molte prospettive soprattutto nella geografia del Sud. Il Tarantismo è una questione tutta aperta e le confluenze culturali e etniche sono traccia e percorso che chiamano in causa appunto una antropologia della visione. Tutto ciò è depositato nelle nostre vite in una mostra e in un convegno. Oltre la ricerca non si ferma.