Michelangelo, servo e fiamma

Carlo Di Stanislao


Un viaggio immaginario nella voce del genio che scolpì l’anima del mondo

Per Francesca 

Ci sono artisti che dipingono il visibile. Altri che scolpiscono il pensiero.

Michelangelo Buonarroti, invece, ha scolpito Dio — e lo ha fatto con mani d’uomo, con piedi dolenti, con stivali incarniti, con l’urina che gli colava addosso mentre il suo cuore era invaso da una fiamma che non si spegneva.

Questa non è una biografia.
È una confessione immaginaria.
Un canto interiore che potremmo attribuire solo a lui. Se Michelangelo potesse parlare ora, dalla cima delle sue opere eterne, ecco cosa ci direbbe.

Io non sono un artista. Sono un tormento scolpito.

“Mi orinavo nei calzoni da ragazzo. I miei piedi marcivano dentro stivali mai tolti, eppure già allora il marmo mi parlava.
Non fui figlio del conforto. Fui figlio della pietra e della febbre.

Raffaello sognava Leonardo. Bramante s’inchinava a Piero della Francesca.
Io non volevo seguire nessuno.
Le mie mani traboccavano di cuore, e col cuore ho segnato il Cielo — e l’Uomo.

Quando mi chiesero di affrescare la Cappella Sistina, gridai: Sono scultore, non pittore!
Ma il fuoco dentro di me rispose: Obbedisci. Sanguina. Crea.

L’arte come ferita

Michelangelo ha dato forma alla luce, alla rabbia, alla redenzione.
Ha liberato anime dalla roccia, come se ogni statua fosse già viva e lui dovesse solo svestirla dal superfluo.

“Ho veduto il tuo marmo, Signore, milioni di anni e conchiglie fatte vita.
La tua arte che configura mi ha sconvolto.
Io non scolpivo statue.
Io liberavo prigionieri d’eternità.”

E così nacquero il David, in tensione perfetta tra grazia e guerra; il Mosè, che trattiene la legge come una maledizione; la Pietà, dove il dolore ha la dolcezza di una madre che ha già perdonato tutto.

Nella Cappella, riverso per anni, con la schiena spezzata e il colore che gli colava sulla pelle, dipinse l’origine dell’uomo e il Giudizio finale. Non con la fede del teologo, ma con la vertigine del creatore che osa guardare Dio negli occhi. 

Il Giudizio, lo specchio dell’anima

Nel Giudizio Universale Michelangelo non cercò il bello.
Cercò il vero.

“Non ho messo figure. Ho messo anime.
Sguardi che accusano, braccia che cadono.
Mi sono ritratto scuoiato,
con la mia pelle in mano:
perché io sono il colpevole e l’offerto.”

Nel caos dei corpi, nella furia degli angeli, nei dannati che scivolano nel nulla, Michelangelo scolpisce la domanda più eterna:
Chi sei tu, uomo, davanti a Me?

Guardando ciò che ha lasciato

Oggi, se il suo spirito potesse osservare le sue opere, non proverebbe orgoglio.
Proverebbe vertigine. Forse pietà.
Forse ancora dolore.

“Guardo ciò che ho fatto e non vedo arte.
Vedo ferite che ancora sanguinano.
Vedo me stesso in ogni muscolo, in ogni volto.
Nel David, vedo la sfida.
Nel Mosè, il peso della Legge.
Nella Pietà, mia madre e tutte le madri.

E sulla Volta… vedo l’uomo che prova a toccare Dio,
senza sapere se verrà respinto.

Michelangelo, testimone dell’infinito

Quello che ci ha lasciato non sono solo statue e affreschi.
Sono ferite aperte nel tempo.
Sono domande scolpite.
Sono grida che attraversano i secoli.

“Non ho lasciato opere. Ho lasciato dolori resi forma.
Io, Michelangelo, servo e fiamma.
Carne divorata dalla visione.

E a chi ancora domanda chi sia l’uomo,
rispondo con pietra e pennello:
Ecce Homo. Ecce Deus.

Post Scriptum.

Forse è questo che differenzia il genio dal talento.
Il talento cerca il capolavoro.
Il genio cerca la verità,
anche se brucia,
anche se consuma,
anche se resta incompiuto.

E Michelangelo —
non ha mai smesso di sanguinare. 

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