Carlo Di Stanislao
«Non si diventa padre di qualcuno senza diventare anche figlio di se stessi.» – Giorgio Agamben
Nel labirinto della cultura occidentale, dove i miti si trasformano in ideologie e le ideologie in strutture di potere, la figura del padre ha esercitato a lungo un’influenza decisiva. Patriarca, guida, sovrano, legislatore, fondatore di civiltà: il padre è stato spesso descritto come il punto d’origine dell’ordine e dell’autorità, il principio regolatore della famiglia e della società. Ma se il pensiero filosofico e antropologico ha cominciato da tempo a smontare il mito della sua centralità — basti pensare alle teorie sul matriarcato primordiale di Bachofen — è nella letteratura che si osserva con maggiore chiarezza il suo progressivo logoramento, la sua trasformazione, la sua caduta.
È questa la tesi forte e affascinante che Giorgio Ficara sviluppa in Il padre sulle spalle (Einaudi), un libro colto e profondo, sottotitolato significativamente Debolezza del patriarcato in letteratura. Non un semplice saggio di critica, ma un itinerario esistenziale tra testi, personaggi, immagini, che disegna un controcanto alla narrazione patriarcale dominante. Un libro che, come scrive lo stesso autore, “mette alla prova la figura del padre” attraverso le grandi opere del pensiero e dell’immaginario occidentale, da Omero a Dante, da Shakespeare a Freud, da Manzoni a Caproni.
La legge del padre e la sua crisi
Ficara parte da un presupposto tanto semplice quanto destabilizzante: la «legge del padre», pur sembrando ancora oggi in buona salute, è da tempo attraversata da una crisi sotterranea. Nella letteratura, questa crisi assume i contorni di un conflitto simbolico tra due archetipi contrapposti: da un lato, il padre autoritario, figura impositiva e a volte tirannica, come il principe padre nei Promessi sposi, colpevole di distruggere l’individualità della figlia per preservare l’onore; dall’altro, un padre più sfumato, malinconico, debole, a volte ridicolo, sempre più simile a un’ombra che a un’icona.
Così, accanto al patriarca severo, spuntano i padri esitanti e commossi: Priamo, che si umilia davanti ad Achille per ottenere il corpo del figlio morto; Ettore, che ascolta Andromaca e accarezza il figlio con tenerezza prima di andare a morire; Anchise, vecchio e impotente, portato in salvo dal figlio Enea; Giulio Cesare di Shakespeare, che piange “come una fanciulla”. Tutti padri imperfetti, distratti, eccentrici, eppure – proprio per questo – profondamente umani.
In questa galleria di ritratti si inserisce anche Monaldo Leopardi, spesso liquidato dalla critica come un reazionario ottuso, ma che emerge, grazie alla lettura di Ficara, come un padre tenero, attento, pieno d’affetto, capace di mantenere con Giacomo un legame emotivo sottile ma persistente, fatto di distanze, equivoci, ma anche di comprensione reciproca. È l’inizio di un’idea di paternità non più fondata sull’autorità, ma sulla cura.
Il padre-Dio e il Dio-padre
A questa metamorfosi del padre terreno corrisponde, inevitabilmente, una riflessione sulla figura del Padre celeste. Ficara entra così nel cuore della teologia e della psicanalisi, là dove si gioca il rapporto più profondo tra immaginario e potere. Secondo Freud, la religione è una proiezione del desiderio infantile: Dio sarebbe un padre idealizzato, onnipotente, che protegge e punisce, garantendo ordine e senso al caos della vita. Ma – osserva giustamente Ficara – questa interpretazione non regge se confrontata con il mistero del Cristo del Nuovo Testamento o con il dogma della Trinità: lì, Dio non è più il giudice supremo, ma il padre che soffre e che si annulla, che si fa carne e poi si lascia crocifiggere.
In questa direzione, il libro si chiude con sei intensi capitoli dedicati alla dimensione spirituale della paternità, culminando nella lettura del Padre nostro secondo Simone Weil, mistica e filosofa di rara intensità. Ma il momento forse più toccante è l’analisi di una poesia di Giovanni Giudici, in cui il poeta-bambino assiste al linciaggio pubblico del padre debitore. Di fronte a quella scena, il figlio lo rinnega, finge di non conoscerlo. Il padre si dissolve così, non più figura d’autorità, ma povero uomo, vulnerabile, umiliato. E il figlio resta orfano: non solo in senso familiare, ma anche metafisico, senza più un riferimento, un dio, una guida.
Il figlio come custode del padre
Da qui, la tesi che dà il titolo al libro: il padre è ora “sulle spalle” del figlio. Non è più il padre a portare, ma ad essere portato. L’immagine di Enea che fugge da Troia con Anchise sulle spalle diventa il simbolo di una nuova narrazione: il figlio che salva il padre, che lo protegge, che gli dà dignità. Enea non è solo un eroe: è un custode della memoria, un mediatore tra passato e futuro. In lui si compie il passaggio dal padre al figlio come nuovo centro della coscienza.
Non a caso, Ficara insiste sul “primato gnoseologico della poesia”, che sola è in grado di afferrare la complessità di questa trasformazione. La poesia non giudica, ma ascolta. Non impone, ma interroga. Nei versi di Sbarbaro, Caproni, Montale, Saba, emerge una figura paterna frammentaria, ambigua, a volte contraddittoria, ma sempre carica di affetto, nostalgia, mancanza.
E poi c’è Telemaco, il figlio di Ulisse, primo di tutti i figli lasciati soli. La sua solitudine non è solo biografica: è il segno di un cambiamento antropologico. Ulisse è il padre assente per eccellenza, il viaggiatore instancabile che rinuncia alla stabilità familiare per seguire il richiamo dell’ignoto. Telemaco rappresenta invece la domanda di senso, la ricerca di una paternità perduta, mai pienamente raggiunta. Da lui discendono tutti i “figli senza padre” della letteratura moderna: da Lazzarillo a Barry Lyndon, da Tom Jones a Renzo, fino a Tom Sawyer.
Una paternità più umana
Nel paesaggio disgregato che ci consegna la modernità, dove le strutture simboliche si fanno mobili e ambigue, la figura del padre si rivela meno un’istituzione e più un’assenza, una nostalgia, una domanda. Eppure, proprio in questa fragilità, potrebbe nascondersi una possibilità. Una paternità che non è più comando, ma testimonianza. Non più dogma, ma affetto. Non più fondamento immobile, ma relazione dinamica.
Il libro di Ficara, con la sua scrittura densa e illuminante, ci invita a ripensare la paternità non come perdita o fallimento, ma come occasione di verità. Forse, per diventare davvero padri – o figli –, bisogna accettare di portare il peso dell’altro sulle spalle, come Enea con Anchise. E forse, solo così, possiamo iniziare a raccontare un’altra storia. Una storia senza padri-padroni, ma anche senza padri-eroi: una storia, finalmente, di padri uomini.
