Dove abita il mostro e comincia la parola

Carlo Di Stanislao

«Le parole sono carceri o ali, a seconda di chi le sa usare.»
— Elias Canetti

La lingua non è mai neutra. Crescendo in contesti segnati dalla violenza, dalla discriminazione o dall’occupazione, ci si accorge presto che le parole possono diventare strumenti di dolore quanto di liberazione. In Palestina, come in altre terre di conflitto, la lingua è continuamente sotto attacco: diventa veicolo di repressione, di censura, di annientamento culturale. La parola viene spezzatamanipolata, privata della sua funzione primaria di comunicare verità. Eppure, proprio quando la lingua sembra tradire, emerge un bisogno più profondo: trovare nuove vie per raccontare, per testimoniare, per sopravvivere.

Nella sua opera più recente, La lingua rubataAdania Shibli esplora queste tensioni. La sua scrittura non è semplice narrazione, ma un’indagine sulle possibilità e sui limiti della parola in un contesto oppressivo. La lingua, per lei, non è solo mezzo, ma materia viva: un terreno dove si combatte, si perde e si riconquista. La scrittura diventa così un atto di resistenza, un tentativo di restituire dignità a ciò che è stato sottratto.

Quando si parla di lingua rubata, non si intende soltanto la privazione del diritto di parlare liberamente. Si intende la sottrazione di un’identità, la cancellazione di memorie, la deformazione di storie che appartengono a comunità intere. Ogni parola negata è un frammento di cultura perduto, ogni silenzio imposto è una ferita nell’anima collettiva. In contesti come quello palestinese, la lingua diventa quindi anche un campo di battaglia: combattere con le parole significa difendere la propria esistenza, riaffermare la propria umanità.

Il silenzio, però, ha un ruolo ambivalente. Non è solo repressione: è anche luogo di meditazione e introspezione. Quando la parola manca, quando il mostro del dolore invade ogni spazio comunicativo, il silenzio diventa uno strumento per elaborare esperienze, per ascoltare ciò che non può essere detto. Shibli ci invita a riconoscere questa tensione: la lingua tradisce, ma il silenzio insegna. Imparare a muoversi tra questi due poli è parte della sfida narrativa che ogni scrittore affronta quando tenta di raccontare l’irreparabile.

La letteratura, in questo senso, si rivela uno specchio indispensabile. Leggere e scrivere diventano atti di cura, di resistenza e di memoria. Quando le parole sono fragili, esse possono essere ricostruitereinventate, piegate a nuove forme espressive. È un processo lentodelicato, che richiede attenzione e rispetto verso la materia linguistica stessa. Ogni frase costruita è un tentativo di restituire senso a un mondo che spesso sembra negarlo.

Ma la lingua rubata non riguarda solo i territori fisici, le frontiere politiche o i confini geografici. Riguarda anche la nostra interiorità, i nostri ricordi, le memorie che abbiamo condiviso con chi ci ha preceduto. La parola può essere strumento di oppressione, ma anche ponte tra generazioni. Raccontare significa quindi preservare un’eredità, dare voce a chi non può parlare, riparare ciò che è stato distrutto. È un atto di giustizia poetica, dove la scrittura assume la funzione di testimonianza e resistenza.

Nella Palestina descritta da Shibli, il mostro non è solo esterno, non è solo l’occupazione o la violenza quotidiana: abita anche dentro chi subisce, dentro la memoria collettiva ferita. La lingua, in questo senso, diventa l’unico strumento capace di affrontarlo. La parola è arma e cura insieme: difenderivendicacuraconsola. In essa si concentra la possibilità di trasformare l’orrore in racconto, il trauma in testimonianza.

La questione etica diventa allora centrale: come usare la parola quando essa stessa è stata usata per ferire? Come fidarsi della lingua quando tradisce e abbandona? La risposta non è semplice. Richiede un impegno costante, una vigilanza sulla nostra capacità di narrare con onestà, di restituire verità senza cedere alla violenza retorica o alla manipolazione. Richiede anche una consapevolezza del potere delle parole: sapere che esse possono costruire mondi, ma anche distruggerli.

In questo senso, l’arte della scrittura diventa un esercizio di libertà. Sperimentare con le forme, con le strutture, con i ritmi del linguaggio significa cercare vie alternative per esprimere ciò che altrimenti resterebbe inespresso. Significa, come suggerisce Shibli, sondare gli strati più profondi della lingua, scoprire possibilità nascoste, coltivare un amore che rende la parola viva e resistente. La letteratura diventa così non solo racconto, ma atto di sopravvivenza, ponte tra passato e futuro, tra dolore e speranza.

Nell’era contemporanea, caratterizzata da conflitti globalimigrazioni forzate e crisi culturali, il tema della lingua rubata assume una valenza universale. Ogni comunità che subisce oppressione culturale si confronta con la stessa sfida: preservare la propria voce, mantenere viva la propria storiaresistere all’oblio. La scrittura diventa allora un dovere morale, oltre che artistico, una responsabilità verso chi non può più parlare.

In questo contesto, la poesia emerge come forma espressiva capace di condensare emozioni complesse in parole essenziali. Dove la prosa cerca di spiegare, la poesia cerca di sentire; dove la narrazione costruisce, il verso svela. La parola poetica può sfuggire al controllo del mostro, trovare aperture inattese, restituire dignità a ciò che sembrava perduto. Ecco perché chi scrive oggi deve imparare a dialogare con la propria lingua, rispettarla, sfidarla, reinventarla.

In chiusura, è necessario ricordare che la parola non è mai completamente nostra, ma nemmeno del tutto ostile. Essa abita territori incerti, dove il mostro della censura, del silenzio e del dolore si intreccia con l’atto creativo e liberatorio. Coltivare la lingua, amarla, sperimentarla, significa affrontare questo mostro, dare voce a chi non ha voce, aprire spazi di libertà anche laddove sembra impossibile. E come ci insegna la letteratura palestinese contemporanea, in ogni parola sottratta, in ogni silenzio imposto, si nasconde una possibilità di rinascita.

Il segreto delle parole

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