| Carlo Di Stanislao |
«La politica è l’arte del possibile, ma anche del ridicolo inevitabile.» – Oscar Wilde
Ringrazio Dio ogni mattina, forse più per questa mia testarda fedeltà a certi ideali che per qualsiasi altro motivo. E sì, nonostante tutto, resto di sinistra. Non per ricchezza, non per comodità, non per moda o snobismo, ma perché, come disse quel genio di Ennio Flaiano, “non sono comunista, semplicemente non ho i soldi per permettermelo”. Esatto: io non ho le tasche gonfie, non possiedo yacht, non ho fondi segreti nei paradisi fiscali. Ma ho un’idea, una convinzione, e, soprattutto, un’ironia che mi permette di sopravvivere alla tragicommedia quotidiana della politica italiana.
Se oggi qualcuno mi chiedesse quale sinistra sostengo, risponderei senza esitazione: socialista riformista, come quelli che una volta incarnavano un certo pragmatismo illuminato: Bettino Craxi, Domenico Susi, persino Claudio De Michelis e il delfino di Craxi, Claudio Martelli. Gente che sapeva che la politica non è solo slogan e manifesti, ma compromesso, visione e, sì, un po’ di sano realismo. Gente che non si vergognava di ammettere che le utopie servono da faro, ma i conti da pagare li fanno gli uomini reali.
Tra questi nomi, Domenico Susi merita una menzione speciale. Non era mai il protagonista da copertina, né appariva con frequenza nei titoli roboanti dei giornali, ma chi ha avuto il privilegio di conoscerlo sa quanto fosse straordinario nella pratica politica quotidiana. Susi incarnava il senso del riformismo serio, quello che cerca soluzioni concrete senza perdere di vista la giustizia sociale. Uomo di profonda cultura, di incredibile pragmatismo e di una pazienza quasi leggendaria, sapeva trattare la politica come un mestiere da artigiano, dove ogni scelta richiede studio, attenzione ai dettagli e, naturalmente, una buona dose di ironia.
Susi non amava le semplificazioni. Si dice che una volta, durante una riunione difficile tra sindacalisti arrabbiati, funzionari pubblici esasperati e imprenditori diffidenti, riuscì a trasformare la contesa in un piano concreto per la riqualificazione di un quartiere degradato. Non urlava, non minacciava, non cercava titoli roboanti: parlava, ascoltava, trovava un compromesso rispettoso della legge, della giustizia e dell’interesse collettivo. Al termine della giornata, con un sorriso sottile, disse soltanto: “La politica è come un’orchestra: se tutti suonano insieme, anche chi stona può diventare parte di qualcosa di bello.”
Ecco perché io, oggi, rido amaramente quando guardo la politica contemporanea: perché il pragmatismo illuminato di Susi sembra un concetto alieno. Oggi la capacità di mediare, di costruire, di rispettare l’avversario politico senza trasformarlo in nemico assoluto è considerata un atto di debolezza, quasi una forma di tradimento. Eppure, proprio in quell’abilità risiedeva la forza di Susi: una forza silenziosa, costante, capace di cambiare la vita delle persone senza clamore e senza foto ricordo.
Ironico, vero? Essere di sinistra oggi è quasi un atto di fede in un mondo che sembra volerci convincere ogni giorno che le ideologie sono obsolete. Ma chi dice che riformismo e pragmatismo non possano convivere con solidarietà e equità sociale? Io ci credo. E per fortuna ho il senso dell’umorismo: perché se non riesci a ridere di te stesso mentre la politica diventa un circo, allora sei già perso.
E poi ci sono momenti di sconforto assoluto, come quando ascolto Tony Blair – sì, proprio lui – impegnarsi con entusiasmo a cercare chi ricostruirà Gaza e, naturalmente, a calcolare quali profitti ne deriverebbero. Si potrebbe quasi applaudire la capacità di conciliare diplomazia internazionale e capitalismo sfrenato: un’impresa titanica. Ma io rimango lì, tra l’incredulo e il sarcastico, chiedendomi se qualcuno abbia mai raccontato a questi grandi architetti della ricostruzione umana che dietro ogni cemento, ogni ponte, ogni filo spinato ci sono vite spezzate, sogni infranti e tragedie che nessun business plan può misurare. Qui si ride amaramente, perché la distanza tra l’idealismo di una sinistra sincera e il pragmatismo selvaggio della geopolitica è più lunga di qualsiasi ponte sospeso.
Resto di sinistra, quindi, nonostante le delusioni quotidiane, i tradimenti e i compromessi. Nonostante le correnti che cambiano direzione come il vento, e nonostante l’assenza di eroi politici degni di quel titolo. Non sono comunista – Flaiano aveva ragione – ma credo ancora in un’idea di società dove chi lavora possa vivere dignitosamente, dove la cultura non sia un lusso per pochi e dove la solidarietà non sia un optional da inserire nei programmi elettorali come nota a margine. Questo è il mio piccolo miracolo personale: continuare a credere che la politica possa essere, almeno un po’, uno strumento di miglioramento sociale e non solo di accumulo personale.
E quando parlo di Craxi, di De Michelis o di Susi, non lo faccio con nostalgia romantica, ma con un’ammirazione ironica per quella capacità quasi eroica di conciliare visione e pragmatismo. Non erano perfetti, certo, e molti errori pesano ancora nella memoria collettiva, ma c’era qualcosa di autentico, di umano, nel tentativo di modernizzare l’Italia e di fare politica con la consapevolezza che nulla si costruisce senza compromesso. Oggi questo equilibrio sembra un’arte perduta, sostituita da slogan vuoti e moralismi digitali. E sì, lo ammetto: ogni tanto mi mancano le polemiche sincere, i dibattiti lunghi fino a notte fonda, le contraddizioni che erano vissute con dignità e non solo come hashtag.
Il paradosso della mia posizione è evidente: essere di sinistra in tempi di cinismo globale, di populismo dilagante, di interessi economici che dettano legge, è quasi un atto eroico. Ma non eroico alla maniera tragica, alla maniera dei martiri ideologici, no: eroico perché comporta ogni giorno la scelta di rimanere coerente, di non piegarsi, di ridere di fronte alle assurdità del potere e di continuare a credere che un altro mondo sia possibile. Con ironia, naturalmente: senza, la delusione sarebbe insopportabile.
E così, mentre Blair si interroga su chi ricostruirà Gaza e quali profitti ne trarrà, io penso ai valori che possono resistere alla mercificazione di ogni cosa: solidarietà, giustizia sociale, equità. Parole vecchie? Forse. Parole inutili? Mai. Perché, alla fine, restare di sinistra è un atto di sopravvivenza morale, di resistenza intellettuale, di fede umana. E per fortuna, o per disgrazia, Dio mi ha fatto nascere con questo cromosoma ideologico impossibile da estirpare.
Rimanere coerente in un mondo che premia il compromesso morale è faticoso. Ma se non altro, offre qualche vantaggio: il privilegio di poter guardare il mondo con occhi critici, con la capacità di distinguere il ridicolo dall’ingiustizia, il paradosso dall’assurdo. E di sorridere, sempre, anche quando la realtà sembra troppo crudele per essere affrontata senza ironia. Perché, in fondo, la sinistra – quella che non si piega, quella che crede ancora che il cambiamento sia possibile – deve avere il coraggio di ridere dei propri errori, di affrontare le proprie contraddizioni e di rimanere umana.
Ecco perché, al di là dei dibattiti infiniti, delle delusioni politiche e delle tragedie internazionali, continuo a ringraziare Dio. Perché mi ha fatto restare di sinistra, per scelta e per necessità, con la saggezza di Flaiano come guida, con i modelli di Craxi, Susi, De Michelis e Martelli come riferimento, e con l’ironia come scudo. Perché in un mondo che spesso misura tutto in denaro e potere, la vera ricchezza resta la capacità di mantenere i propri principi, ridendo della vita e della politica, anche quando sembra che entrambe siano impazzite.
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