di Carlo Di Stanislao
“Non esistono mani invisibili che creano ricchezza: esistono mani invisibili che cuciono miseria.”
— Karl Marx (rivisitato)
di Carlo Di Stanislao
C’è qualcosa di marcio nel regno del lusso italiano. E non è solo la puzza del cuoio lavorato a nero. È la puzza dell’ipocrisia. L’Italia che esporta eleganza e stile in tutto il mondo continua a importare miseria, sfruttamento e silenzio. L’ultimo caso? Tod’s. Ma non è solo Tod’s. È un intero sistema, un modo di pensare, un vizio nazionale che confonde l’immagine con la morale e la beneficenza con la redenzione.
Dopo Armani, Dior, Alviero Martini e Loro Piana, ora tocca a Della Valle. Il marchio del mocassino di pelle, simbolo di italianità impeccabile, è finito nel mirino della magistratura per grave sfruttamento lavorativo. La solita storia: appalti, subappalti, laboratori fantasma, lavoratori trattati come pezzi di ricambio. Il “made in Italy” continua a essere “made in sweatshops”, cucito col sudore di chi non compare mai negli spot pubblicitari.
Il lusso che sfrutta e si autoassolve
Ogni volta, la sceneggiatura è la stessa. Scoppia l’indagine, le aziende si dicono “esterrefatte”, promettono “collaborazione con la magistratura” e si trincerano dietro la frase magica: non lo sapevamo.
Non lo sapevano che i fornitori tagliavano i costi sulla pelle delle persone.
Non lo sapevano che la manodopera era sottopagata e invisibile.
Non lo sapevano che dietro il mocassino da 700 euro c’era un lavoratore che guadagna 4 euro l’ora.
Eppure i bilanci parlano chiaro, e i margini pure. Se paghi poco la filiera e vendi a peso d’oro, la matematica del profitto è semplice: qualcuno viene schiacciato.
La verità è che non solo lo sanno, ma lo accettano. È la regola del lusso globalizzato: si produce miseria per vendere sogni. Si fabbrica ingiustizia per incartarla nel velluto.
Il “capitalismo della reputazione” vive così: compra un’immagine e rivendila come etica. È un sistema perfetto, lucido, legalmente ineccepibile. Ma moralmente indecente.
Il danno d’immagine? Lo pagano sempre i piccoli
Il professor Luca Poma, esperto di Reputation Management, ha parlato di “danno incalcolabile” per Tod’s.
Ma chi lo paga, davvero?
Non certo la famiglia Della Valle, che resterà seduta sul suo impero, protetta da comunicati stampa e avvocati di grido.
Lo pagano i piccoli. Gli artigiani veri, quelli che rispettano le regole e che non possono competere con chi lavora in nero.
Lo pagano i lavoratori, che perdono diritti e dignità.
Lo pagano i consumatori onesti, che scoprono di aver speso una fortuna per indossare la vergogna altrui.
E lo paga l’Italia intera, che perde ogni volta un pezzo della propria credibilità.
Perché non è un “danno reputazionale”. È un danno morale. Un fallimento etico che non si cancella con una donazione a un ospedale o una fondazione benefica.
Il progressismo di facciata
Ma il vero capolavoro dell’ipocrisia italiana è un altro: quello del capitalismo progressista.
Quello che si veste da sinistra, ma conta i profitti come un banchiere svizzero.
Quello che parla di “valori umani”, ma taglia il costo del lavoro.
Quello che si commuove per gli operai solo quando servono per una campagna di marketing.
E qui entra in scena Della Valle.
Sì, proprio lui, il self-made man di Casette d’Ete, il patriota delle scarpe firmate, l’imprenditore “illuminato” che si atteggia a voce morale del Paese. Uno che ha finanziato restauri, parlato di etica, invocato “un capitalismo più umano”.
Peccato che sotto la superficie del moralismo patinato si nasconda la stessa logica spietata che regola tutto il sistema: massimizzare i profitti e minimizzare le responsabilità.
Come se non bastasse, Della Valle è anche quello che ama presentarsi come “progressista”, vicino a certi ambienti della sinistra colta, del pensiero etico, della “solidarietà”.
Il “progressista col mocassino d’oro”.
La sinistra del cachemire.
Un paradosso vivente: parlare di giustizia sociale mentre si arricchisce con le disuguaglianze.
I fratelli Benetton: comunisti da passerella
E non è il solo. I fratelli Benetton, anche loro, per decenni si sono raccontati come gli “amici dei comunisti”, i progressisti dell’imprenditoria veneta.
Campagne pubblicitarie “sociali”, messaggi universali, arcobaleni, multiculturalismo e tolleranza.
Ma dietro i manifesti colorati, le magliette “United Colors” e le lezioni di umanità, c’era lo stesso capitalismo predatorio che ha fatto piangere i lavoratori di Autostrade, i dipendenti della ristorazione, i fornitori africani sfruttati nella filiera tessile.
Altro che “sinistra del lavoro”. Era la sinistra del profitto.
La sinistra che parla di giustizia, ma firma bilanci milionari.
La sinistra che cita Marx nei convegni e licenzia in silenzio.
È la sinistra del lusso: quella che si commuove solo davanti a un tappeto rosso.
Il Paese del doppio registro morale
L’Italia è un Paese di doppi registri.
Da un lato celebra il “lavoro” come valore fondante, dall’altro lo umilia ogni giorno.
Premia chi sfrutta e punisce chi resiste.
Incensa chi “crea valore” ma ignora chi crea il prodotto.
È un Paese che parla di artigianato e poi lo sostituisce con manodopera clandestina, che predica l’etica ma vive di evasione, che chiama “innovazione” la delocalizzazione.
Il made in Italy è diventato un mito tossico.
Dietro ogni borsa, ogni giacca, ogni profumo, c’è una filiera di bugie e di sudore.
Una costruzione narrativa più che produttiva.
Una fiction economica in cui l’unico ingrediente vero è la disuguaglianza.
E la politica? Muta.
Ogni volta promette “controlli severi”, ma taglia i fondi all’ispettorato del lavoro.
Ogni volta si indigna per un giorno e poi si siede a cena con gli stessi imprenditori sotto accusa.
L’Italia ha un vizio antico: si scandalizza solo fino all’aperitivo.
Il silenzio dei media e la complicità dei consumatori
Poi ci sono i media, che si indignano a comando.
Finché la notizia fa clic, si parla di “sfruttamento”.
Quando l’attenzione cala, tornano le copertine glamour, le interviste zuccherose, le sfilate e i sorrisi.
E infine ci siamo noi.
I consumatori complici.
Quelli che vogliono la borsa di Tod’s o la giacca Loro Piana “perché è un investimento”.
Quelli che sanno ma fanno finta di non sapere.
Quelli che si indignano per mezz’ora e poi comprano online.
Ogni volta che acquistiamo senza chiederci da dove viene ciò che compriamo, alimentiamo il sistema.
Il vero potere non è nei tribunali, ma nei portafogli.
E noi, invece di boicottare, premiamo.
Invece di ribellarci, collezioniamo.
Siamo il carburante morale di questo capitalismo ipocrita.
Il lusso come malattia morale
Ci hanno venduto il lusso come simbolo di successo.
Ma oggi il lusso è una malattia morale.
È la febbre di un Paese che non sa più distinguere il valore dal prezzo.
Un virus che infetta la coscienza collettiva e paralizza l’empatia.
Dietro ogni passerella, c’è un muro di silenzi.
Dietro ogni vetrina, c’è una catena invisibile.
Dietro ogni sorriso di un testimonial, c’è una fabbrica che non esiste nelle mappe fiscali.
Il lusso è diventato la nuova religione italiana: ci crediamo anche se sappiamo che è falsa.
E il suo dio non è il talento, ma il margine di profitto.
La colpa, non la scusa
Non serve un altro codice etico o un’altra fondazione filantropica.
Serve una parola che nessuno osa più pronunciare: colpa.
Colpa di chi sfrutta.
Colpa di chi finge di non sapere.
Colpa di chi indossa il silenzio come accessorio.
Finché le aziende continueranno a dire “non lo sapevamo”, niente cambierà.
Finché i “progressisti del lusso” continueranno a definirsi morali, il marcio resterà sotto il tappeto.
Finché i consumatori continueranno a comprare per sentirsi migliori, nessuno smetterà di sfruttare.
Non basta cambiare linguaggio: bisogna cambiare coscienza.
E forse, per farlo, dovremmo smettere di credere che il made in Italy sia sinonimo di virtù.
Perché la bellezza non può nascere dal dolore.
E la vera eleganza non ha bisogno di schiavi.
“Il lusso è diventato il profumo della povertà altrui»-Italo Nostromo
Tutte l’opinioni versati nel sito correspondono solo a chi la manifesta. Non e necessariamente l’opinione della Direzione
