Carlo Di Stanislao
“Il dolore non è una condanna, ma un modo di tornare a sentire.” — Michela Murgia
C’è un istante, davanti allo schermo, in cui capisci che il cinema può ancora guarire. È un attimo sospeso, impercettibile, in cui il suono di una ciotola che si posa sul tavolo ti sembra dire più di mille parole. Così è stato per me davanti a Tre ciotole di Isabel Coixet, tratto dal libro-testamento di Michela Murgia.
Mi sono ritrovato dopo molto tempo, come chi, dopo un’operazione, ritrova una voce che credeva perduta — una voce diversa, artificiale forse, ma miracolosa nella sua imperfezione, perché testimonia che si può ancora parlare, che si può ancora dire io.
Non per urlare, ma per sussurrare al mondo che esisto ancora.
Coixet, regista del pudore e dei silenzi, fa del dolore un paesaggio interiore, e in questo paesaggio io spettatore mi sono riconosciuto, come si riconosce una casa dimenticata. Non c’è rumore in questo film, non c’è clamore né desiderio di compiacere: c’è soltanto una voce che tace e uno sguardo che resta.
Tre ciotole è una storia che non vuole convincere, ma accompagnare. Non spiega, non consola, ma accarezza la ferita con la calma di chi sa che certe sofferenze non vanno guarite, vanno abitate.
La protagonista, Marta, interpretata da un’Alba Rohrwacher in stato di grazia, è una donna che smette di mangiare dopo la fine di un amore. Un gesto apparentemente semplice, ma che diventa il simbolo della perdita di sé, del corpo che rifiuta di nutrirsi perché non riconosce più il proprio senso.
Antonio, l’uomo che ha amato (un intenso Elio Germano), non è un carnefice, ma un essere umano incapace di reggere il peso della distanza. La loro separazione non è il dramma gridato delle coppie al cinema, ma un naufragio in silenzio: due sponde che si guardano e si lasciano andare, sapendo che la marea non tornerà.
Eppure, proprio in questo svuotamento, inizia la possibilità della rinascita.
Marta prepara tre ciotole — tre come i gesti essenziali, come i pasti, come le fasi della vita. Ogni ciotola diventa un rito, un modo per dare forma all’assenza.
Guardandola, ho sentito che il cinema tornava a essere ciò che dovrebbe sempre essere: una liturgia dello sguardo, una preghiera laica in cui lo spettatore non consuma, ma partecipa.
La fotografia di Guido Michelotti, calda e lattiginosa, costruisce una Roma intima, fatta di luce che filtra e non acceca. È una città che respira piano, che non mostra ma custodisce.
Le stanze, i corridoi, le cucine: spazi quotidiani che diventano sacrari domestici.
Ogni oggetto, ogni gesto — una tazza, una mano che sfiora un vetro, una finestra che si apre — ha la sacralità di un segno.
Ho pensato che forse il cinema vero non è quello che ci stordisce, ma quello che ci restituisce il silenzio.
Coixet non ha paura di rallentare. I suoi tempi sono quelli dell’anima: a volte lenti, a volte sospesi, a volte immobili. E in questa lentezza io ho ritrovato il respiro. Le sue inquadrature non vogliono dominare, ma comprendere.
Guardano il dolore con pudore, come si guarda qualcuno che dorme e non si vuole svegliare.
Il corpo di Marta diventa un paesaggio: il pallore, la fragilità, i gesti minimi sono mappe di un territorio invisibile. Rohrwacher lo attraversa con una grazia che commuove, senza mai cedere al patetico. Ogni suo sguardo è un frammento di preghiera, un tentativo di restare viva nonostante la resa.
La regista costruisce un racconto che procede per sottrazione. Non c’è climax, non c’è redenzione spettacolare. C’è solo un filo di luce che attraversa il buio.
E in quel filo io mi sono sentito presente, parte di qualcosa di più grande.
Tre ciotole non cerca la catarsi, ma la comprensione. È un film che chiede tempo, che chiede di restare.
Non si può guardare distrattamente: bisogna accoglierlo, come si accoglie una confessione.
C’è un momento che non dimenticherò: Marta siede davanti a un piatto vuoto, e per la prima volta sorride. È un sorriso minuscolo, quasi invisibile, ma dice tutto.
Dice che anche quando non si ha più fame, si può ancora nutrirsi di bellezza, di attenzione, di memoria.
Quel sorriso, più di qualsiasi parola, mi ha fatto capire che il cinema può ancora curare.
Elio Germano, nel suo ruolo di uomo che resta indietro, è l’altra faccia della medaglia. È chi non riesce a comprendere, ma continua a voler capire. La sua assenza è presenza costante, come un’eco che non si spegne.
E intorno a loro — piccole presenze, figure gentili: l’amica, il medico, la terapeuta. Tutti elementi che non giudicano, ma accompagnano.
Coixet filma la gentilezza come una forma di resistenza.
In un mondo che urla, lei sceglie di sussurrare.
Uscendo dal cinema, ho avuto la sensazione di aver partecipato a qualcosa di antico.
Come se la sala fosse tornata a essere un luogo sacro, dove si entra per ascoltare e non per dimenticare.
Da tempo non provavo quella gratitudine muta che nasce quando un film non solo racconta, ma accoglie.
Ho pensato a Michela Murgia, alla sua voce che si è spenta eppure continua a parlare.
Ho pensato che forse questo film è un suo ultimo gesto d’amore verso la vita, un invito a non avere paura del dolore.
E come medico, mi sono ricordato ciò che mi era stato insegnato e che oggi troppo spesso dimentichiamo: che la morte va accettata, sì, ma il paziente va accompagnato fino in fondo, con attenzione, rispetto e presenza.
Non si tratta di curare a ogni costo, ma di restare accanto, anche quando non c’è più nulla da fare se non esserci.
Coixet accompagna i suoi personaggi con quella stessa delicatezza che dovrebbe appartenere a chi cura: uno sguardo che non si distoglie, una mano che non si ritrae.
E in questa consapevolezza ho sentito un richiamo etico e umano: quello di un tempo in cui la medicina, come l’arte, era prima di tutto un atto d’amore.
Perché in Tre ciotole non c’è la negazione della morte, ma la sua integrazione.
Non è un film sulla malattia, ma sulla consapevolezza.
Sull’imparare a misurare il tempo non in giorni, ma in gesti.
Non in guarigioni, ma in comprensioni.
Ogni ciotola che Marta riempie o lascia vuota è un atto di accettazione: del corpo, del limite, dell’imperfezione.
E mentre la osservavo, mi sono accorto che stavo respirando diversamente. Più piano, più vero.
Forse questo significa ritrovare la voce: non quella di prima, ma quella che nasce dal silenzio.
Una voce che, pur cambiata, dice ancora tutto.
Il finale, sobrio e luminoso, non chiude ma apre.
C’è una quiete, una dolcezza che non consola, ma accompagna.
E lì, nella semplicità di una mano che tocca l’altra, ho sentito che la bellezza non salva, ma sostiene.
Che il cinema, quando è sincero, non promette miracoli: ti invita solo a restare presente, a guardare, a sentire.
Tre ciotole è un film che vive di misura, sottrazione e grazia. È fragile come il suo tema e per questo necessario.
Non sarà per tutti — qualcuno lo troverà lento, qualcuno lo troverà troppo pudico — ma per chi sa ascoltare è un dono.
È un film che chiede rispetto, come si chiede silenzio davanti a un rito.
Mentre scorrevano i titoli di coda, ho capito che il mio amore per il cinema non era mai sparito: si era solo ammutolito, in attesa di una storia come questa.
Una storia che non chiede di essere capita, ma sentita.
Una storia che ti insegna che il dolore, quando lo guardi senza paura, può diventare luce.
E che bastano tre ciotole — o tre gesti, o tre respiri — per ricordarti che sei vivo.
Con Tre ciotole, ho ritrovato la voce e il respiro, anche se diversi, anche se tremanti.
E soprattutto, ho ritrovato il cinema — quel cinema che non urla, non finge, ma sa ancora ascoltare.
Il cinema che ti rimette al mondo con la dolcezza di un respiro, e ti ricorda che, a volte, la vera bellezza è nella voce che ritorna dal silenzio.
