Carlo Di Stanislao
“Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi.”
(La giustizia è la volontà costante e perpetua di dare a ciascuno il suo.) — Ulpiano
C’è un’aria pesante sopra il mondo. È l’odore freddo e metallico delle armi che tornano a imporsi come unica lingua tra le nazioni. Gli Stati Uniti valutano se concedere all’Ucraina i missili Tomahawk, strumenti di precisione letale capaci di colpire nel cuore della Russia. La notizia — che potrebbe sembrare solo un capitolo in più del lungo conflitto ucraino — è in realtà un segnale sinistro: l’umanità si sta di nuovo avvicinando al baratro della guerra totale, mentre i leader fingono di parlare di pace.
Donald Trump, tornato alla Casa Bianca con la promessa di “fermare le guerre infinite”, si trova di fronte al suo primo grande bivio strategico. Con la solita teatralità dichiara: “Io voglio salvare vite”. Ma intanto sul tavolo del Potomac scorrono piani operativi, logistiche di lancio, scenari di escalation. La “pace attraverso la forza” torna a essere il mantra americano. Ma forza e pace non sono sinonimi: spesso la prima distrugge la seconda.
Un gioco di specchi e missili
Kiev chiede i Tomahawk perché teme di perdere la guerra di posizione contro Mosca. L’Ucraina, logorata da quattro anni di conflitto, vede nell’arma americana l’unica possibilità di colpire le retrovie russe e spingere Vladimir Putin a trattare. Ma la logica militare è una spirale: ogni “mossa di forza” produce una risposta più dura. E ogni promessa di deterrenza diventa un passo verso l’abisso.
Mosca, per bocca di Sergei Lavrov, parla apertamente di “atto di escalation gravissima”. E non ha torto. Per il Cremlino, vedere missili americani – anche se impugnati da Kiev – volare oltre il confine sarebbe come rivedere il fantasma di Cuba nel 1962. Il mondo si era allora salvato per pochi minuti di lucidità umana, per un gesto di prudenza in un oceano di follia. Ma oggi, la prudenza sembra fuori moda.
Le diplomazie si parlano, ma senza ascoltarsi. L’Alaska, dove Trump e Putin hanno discusso lo scorso agosto, è già lontana. E mentre le cancellerie cercano un linguaggio comune, gli algoritmi militari calcolano traiettorie e tempi di volo. Tutto appare inevitabile, come se il destino fosse scritto nelle coordinate GPS di un lancio.
Trump, Zelensky e il paradosso della pace armata
Trump non è un uomo di pace, ma di risultato. Parla di “salvare vite”, ma in realtà pensa in termini di pressione e potere. Crede che la minaccia sia l’unico modo per ottenere il compromesso. È la logica di chi negozia non con la fiducia, ma con il coltello sul tavolo. La chiamano “realpolitik”, ma di reale ha solo il sangue che versano gli altri.
Zelensky, dal canto suo, è ormai prigioniero del conflitto che doveva salvare la sua nazione. Da simbolo di resistenza a uomo logorato dalle attese occidentali, vede nell’aiuto americano un salvagente, ma potrebbe essere una zavorra. I Tomahawk, una volta consegnati, non saranno solo armi ucraine: saranno un messaggio diretto da Washington a Mosca. E in quella triangolazione di missili, il rischio più grande è che la pace diventi una parola svuotata, pronunciata solo per dovere diplomatico.
L’Europa nel sonno
E l’Europa? Dorme, come troppo spesso nella sua storia recente. Bruxelles discute di bilanci e quote di rifugiati, mentre i venti di guerra tornano a spirare alle sue frontiere orientali. Nessuna visione, nessuna strategia, solo la paura di restare ai margini delle decisioni prese altrove.
Macron parla di “autonomia strategica”, Scholz di “responsabilità europea”, ma nessuno ha il coraggio di dire l’unica cosa sensata: che ogni ulteriore escalation, oggi, potrebbe trascinare il continente nel più grande disastro dalla Seconda guerra mondiale.
La geopolitica del 2025 sembra scritta da un cieco: Stati Uniti e Russia si muovono come giganti che non vedono, l’Ucraina come una pedina che crede di essere regina, e l’Europa come un continente che preferisce il silenzio al coraggio. Intanto, nei rifugi antiaerei di Kharkiv o Belgorod, la gente comune non discute di deterrenza: teme solo che la notte successiva non arrivi.
L’illusione della superiorità tecnologica
I Tomahawk, con la loro precisione chirurgica, rappresentano il trionfo dell’illusione tecnologica. Ogni volta che l’uomo ha costruito un’arma “intelligente”, ha pensato di poter rendere la guerra più controllabile. Ma la guerra non si controlla, si scatena. E l’idea che la tecnologia possa sostituire la diplomazia è uno degli errori più gravi del nostro tempo.
Nel 1914 si diceva che la modernità avrebbe impedito una guerra lunga, perché “nessuno può resistere a lungo con le macchine moderne”. Finì con dieci milioni di morti. Oggi, nel 2025, si ripete lo stesso errore, travestito da strategia: che la superiorità tecnologica possa garantire la pace. Ma la pace non si misura in kiloton, si misura in volontà politica e in capacità morale.
Il ritorno della paura nucleare
Dietro la questione dei Tomahawk c’è un’ombra più grande: quella nucleare. Ogni volta che la Russia si sente minacciata nel suo territorio, la dottrina strategica russa prevede la possibilità dell’uso “difensivo” dell’arma atomica tattica. Non è retorica, ma dottrina scritta.
Un lancio sbagliato, un radar che interpreta male, un errore umano: basta poco per trasformare un’escalation convenzionale in un incubo planetario.
Eppure, l’opinione pubblica sembra anestetizzata. La guerra non si vede, non si sente. È uno spettacolo in streaming, un titolo in push notification. Non ci sono trincee visibili, solo pixel e grafici. Ma dietro ogni mappa interattiva, ci sono vite spezzate e famiglie distrutte.
Il crepuscolo della diplomazia
“Ci aspettiamo una risposta concreta”, dice Lavrov. Ma la diplomazia è ormai ridotta a conferenze stampa e foto ufficiali. Le vere decisioni si prendono nei centri di comando, non più nei palazzi delle Nazioni Unite.
Eppure, mai come ora servirebbe una voce autorevole, una mediazione vera, un nuovo Helsinki.
Trump parla con Putin, ma lo fa da venditore, non da statista. Zelensky implora armi, non tregue. L’Europa si limita a “monitorare la situazione”.
Il mondo si trova così a un passo dal ripetere i propri errori, mentre tutti fingono di ignorarli.
Conclusione: il silenzio che precede il tuono
Siamo sull’orlo di un nuovo capitolo della storia, e non è detto che sarà scritto con l’inchiostro.
I Tomahawk non sono solo missili: sono simboli di un ritorno alla logica della paura.
Una logica che credevamo superata, e che invece riaffiora ogni volta che la politica smette di pensare e ricorre alle armi.
Forse, come avrebbe detto Ulpiano, “dare a ciascuno il suo” oggi significherebbe restituire alla diplomazia la sua parte, e alla giustizia la sua voce.
Perché senza giustizia, la pace è solo tregua.
E una tregua armata non salva il mondo: lo sospende, in attesa del prossimo colpo.
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