| Carlo Di Stanislao |

«Chi osa nulla spera, nulla ottiene.» — Euripide
C’è un filo invisibile che lega la politica alla poesia, la leadership alla letteratura: la capacità di immaginare. Sembra un paradosso, ma è proprio questo il punto. L’immaginazione, oggi, è diventata la virtù più concreta che abbiamo dimenticato di esercitare. E non è un caso che i sistemi politici che ancora funzionano — o almeno sopravvivono con dignità — siano quelli che hanno deciso, prima di tutto, di immaginarsi vincenti.
Decidere di vincere
Negli Stati Uniti, i democratici hanno riscoperto qualcosa che la sinistra europea ha smarrito da decenni: la volontà di vincere.
Il titolo del nuovo manuale strategico dei Dem, Deciding to Win, sembra un’ovvietà motivazionale, ma è in realtà una rivoluzione culturale. Significa che prima di elaborare un programma, serve un immaginario. Prima di costruire consenso, serve una visione del possibile. Prima di vincere nelle urne, bisogna decidere che si può vincere nel mondo.
È un cambio di paradigma: passare dalla difesa del bene al progetto del meglio.
Dalla testimonianza morale alla strategia pragmatica.
In Italia, invece, sembriamo ancora fermi alla nostalgia del “meglio non si può fare”. La sinistra preferisce la purezza alla vittoria, la minoranza orgogliosa alla responsabilità del governo.
Eppure, la lezione americana è chiara: non si vince per caso, si vince per immaginazione politica.
L’Europa della paura
Il nostro continente è ormai una fortezza assediata non tanto dai populismi, quanto dal proprio disincanto.
Viviamo in una società senza immaginazione, che si è abituata a gestire le emergenze invece di prevederle. Le nostre élite amministrano, non sognano.
Le nostre opposizioni denunciano, ma non costruiscono.
Tutti parlano di “realismo”, come se fosse un sinonimo di serietà. In realtà è la parola con cui giustifichiamo la resa.
Negli anni Sessanta si immaginavano utopie spaziali, rivoluzioni sociali, cittadinanze universali. Oggi discutiamo se sia meglio la flat tax o il cashback. È il sintomo di una politica ridotta a Excel.
L’immaginazione, in questo senso, è diventata una forma di disobbedienza democratica: chi osa immaginare viene subito etichettato come ingenuo o estremista. Ma senza immaginazione non esistono alternative, e senza alternative la democrazia si atrofizza.
La lezione americana (per chi vuole ascoltarla)
Il manuale dei democratici americani, in fondo, dice una cosa semplicissima: smettiamola di farci definire dagli altri.
Per vent’anni, i progressisti hanno accettato di giocare in difesa. Ogni volta che i repubblicani lanciavano un tema — tasse, confini, libertà, lavoro — i dem rispondevano spiegando perché non erano così radicali come sembravano.
È la trappola in cui è caduta anche la sinistra italiana: passare il tempo a smentire le caricature dei propri avversari.
“Decidere di vincere” significa rifiutare quella trappola.
Significa imporre un nuovo immaginario collettivo: non subire il racconto, ma dettarlo.
È quello che fece Obama nel 2008 con tre parole — Yes, we can.
È quello che, in modo più tecnico ma altrettanto visionario, sta cercando di fare l’amministrazione Biden: costruire una politica che unisca innovazione, industria, lavoro e ambiente in un’unica narrazione di futuro.
In Europa, e in Italia, non abbiamo ancora trovato una frase che equivalga a quel “yes”.
Non un logo, non uno slogan, ma una narrazione credibile del domani.
Il populismo come sintomo di vuoto immaginativo
Il populismo — di destra e di sinistra — prospera solo dove l’immaginazione civile si è spenta.
Quando la politica smette di offrire un futuro, la gente si rifugia nei miti del passato.
È un fenomeno più antropologico che ideologico: l’elettore non vota solo per un programma, ma per una storia in cui riconoscersi.
E se l’unica storia che trova è quella del risentimento, la sceglierà.
La destra contemporanea ha capito bene questa dinamica: non propone soluzioni, ma immaginari semplificati — patria, sicurezza, identità, confini.
La sinistra, invece, propone soluzioni senza immaginari: grafici, dati, slide.
Ma l’essere umano non si muove per spreadsheet, si muove per simboli.
Ecco perché “decidere di vincere” non è una frase da spin doctor, ma una sfida antropologica.
Richiede di tornare a credere che l’immaginazione non sia un lusso intellettuale, ma una forma di potere.
Dalla resilienza alla visione
Negli ultimi anni abbiamo idolatrato la resilienza: la capacità di resistere, adattarsi, sopravvivere. Ma resistere non basta.
La resilienza è la virtù dei tempi di crisi, non dei tempi di costruzione.
Oggi serve qualcosa di più: la visione.
La capacità di immaginare un mondo che ancora non esiste e di agire come se potesse esistere davvero.
In questo, l’Italia è un laboratorio perfetto del paradosso occidentale: il paese più creativo del mondo con la classe dirigente meno immaginativa d’Europa.
Abbiamo un patrimonio estetico ineguagliabile, ma una politica incapace di trasformare la bellezza in progetto.
Abbiamo inventato il Rinascimento e ora litighiamo sui bonus edilizi.
Il diritto di immaginare
Il futuro non appartiene ai cinici. Appartiene a chi osa immaginare.
E non si tratta di ottimismo, ma di realismo evoluto: ogni conquista umana — dalla democrazia al volo, dall’antibiotico all’intelligenza artificiale — è nata da qualcuno che ha immaginato l’impossibile.
La vera sfida per la sinistra italiana (e per chiunque creda ancora nella libertà) non è “tornare a vincere”. È tornare a immaginare.
Perché chi non immagina, prima o poi, obbedisce a chi lo fa.
Come scriveva Euripide, chi non osa nulla, nulla ottiene.
E oggi osare significa soprattutto questo: decidere di immaginare.
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