Grazia Deledda. La confessione i luoghi la terra e l’isola tra letteratura e antropologia – Pierfranco Bruni

 

 

Grazia Deledda. La confessione i luoghi la terra e l’isola tra letteratura e antropologia
Pierfranco Bruni
«Cosima», l’ultimo, tra gli ultimi, scritto di Grazia Deledda é una autobiografia come confessione. O meglio la confessione come autobiografia nel segno di un genere letterario. La fenomenologia della letteratura attraversa spiritualità, natura, luoghi. I luoghi restano fondamentali in una espressività dia letteraria che direttamente antropologica. Così in «Cosima»: «Le giornate erano quasi sempre grigie, nel freddo mattino del tardo autunno: ma a poco a poco il cielo si schiariva e si sollevava sopra i monti che prendevano una lucentezza opaca di stagno, e sull’alto si apriva l’occhio, bianco prima, poi perlato del sole, come di un dormiente che dopo aver lottato con un triste sogno si sveglia ridente alla dolce realtà. Allora tutto prendeva colore; il cielo sembrava un mare sparso d’isolette rocciose, sui rami degli alberi le ultime foglie palpitavano come farfalle d’oro e i monti riprendevano le loro tinte azzurre e rosee».

I luoghi, il canto, la danza e i costumi sono la realtà imprescindibile delle etnie e di una antropologia riferita alla immagine. Credo che ci sia una bella dialettica intorno al legame tra la antropologia dei beni culturali, la visione etnodemoantropologica e la filosofia della cultura popolare. Una dialettica che pone in essere due aspetti fondamentali: l’antropos e il luogo, l’uomo e il territorio. Intorno a questi due elementi si sviluppano i processi storici e il legame tra identità e civiltà da sempre fondamentale per comprendere le realtà dei popoli.

La demoetnoantropologia, tra le altre cose, costituisce anche una innovazione nel dare un senso interpretativo alla tradizione e al moderno e rientrano in questo ambito le tradizioni, i costumi, le metafore esistenziali, i canti, la canzone, i balli, le danze. Tutto ciò che un popolo, o una civiltà, ha o hanno prodotto. Ecco perché credo che sia necessario che gli altri campi dei beni culturali si confrontino costantemente con l’antropologia che diventa, appunto, demoetnoantropologia. Il discorso inerente le minoranze linguistiche, etnolinguistiche e storiche, rientra in questa chiave di lettura.

Ho visitato  i luoghi di Grazia Deledda, ovvero la Sardegna, in modo particolare quelle comunità che vanno da Sassari fino al Galtellì e si protraggono oltre Olbia. La mia attenzione si è concentrata sul territorio nel quale ho condotto il mio viaggio. 

A Galtellì c’è il parco letterario dedicato a Grazia Deledda dove è stato scritto “Canne al vento”.Quelle canne al vento costituiscono ancora l’emblema delle varie rappresentazioni storiche e teatrali, ma anche struttuali, di queste comunità. All’interno di questo tessuto territoriale la figura di Grazia Deledda ha lasciato un segno forte. Nei suoi libri, nella sua identità sarda, i costumi, le tradizioni, i messaggi, che non sono soltanto messaggi linguistici, ma sono messaggi in cui si ritrovano questi spazi antropologici, culturali e letterari, rappresentano una metafora del luogo che è poi divenuta una metafisica dell’anima, perché il luogo diventa tale nella scrittura, nella parola, nel linguaggio, nei comportamenti, nel momento in cui si trasforma da realtà a metafora, da metafora a metafisica dell’anima.


“Canne al vento” è la ricontestalizzazione di quel territorio e ho avuto modo e la possibilità di osservare questa ricca comunità in cui la cultura popolare è un punto nevralgico. La cultura pastorizia, la cultura nuragica, la cultura pastorale vera e propria vengono rappresentate da un museo straordinario in cui convivono le testimonianze del mondo contadino che sono un punto di riferimento e di contatto con la Sardegna di un tempo, che è diventata memoria, e un tempo in cui oggi è possibile leggere le testimonianze di un passato. Tra questi elementi ci sono i costumi.

Ho avuto modo di osservare con attenzione i costumi delle donne, degli uomini, in modo particolare i costumi dei bambini, maschietti e femminucce. Questi costumi ci riportano ad una tradizione che è quella di filare i tappeti, di filare i tessuti, di filare tutto quel materiale che in fondo proveniva dal tessuto territoriale, dalla terra, dal mondo contadino, ma allo stesso tempo queste stesse forme costituiscono ancora oggi un approccio per comprendere la visione entnoantropologica nella cultura sarda. C’è tutta una realtà che è la realtà legata ai colori, alle sfumature, e questi colori e sfumature sono il penetrato storico delle varie epoche. Le rappresentazioni delle donne in costume tradizionale, forme che noi oggi definiamo “folkloristiche”, un tempo assumevano un preciso significato legato alla tipologia del vestito indossato. Vi era un vestito per ogni circostanza: il vestito della festa, del lutto, ecc. Ogni categoria della vita ruotava intorno ai colori e al vestito, come ad esempio il tipo di canto e di danza.

I cantores sardi possiedono una dolente litania, malinconia, una nenia che ha un rimando pastorale ma che, allo stesso tempo, ci riporta ad un mondo mediterraneo arabo in cui la visione tirrenica ha rappresentato un crogiolo di condizionamenti e di contaminazioni.

I cantores, che ho avuto modo di ascoltare, è un gruppo che rappresenta la vera e propria lingua sarda e che costituisce un richiamo a quegli echi che sono gli echi di un messaggio in cui la visione cristiana diventa punto nevralgico, centrale. Qui c’è la visione cristiana vista a tutto tondo nella sua attesa e nella sua speranza come modello non solo evangelico, ma come modello di una cultura religiosa che era dentro la cultura popolare.

Non può esistere una cultura popolare, contadina, senza una cultura religiosa. Una dimostrazione ci è data dai cantores. Si pensi anche al canto di Maria Carta, all’Ave Maria di Maria Carta. Ebbene, il richiamo di Maria Carta è un emblema di un segno tangibile in cui il linguaggio popolare, quindi la lingua che noi chiamiamo dialetto ma si tratta di lingua sarda, è la lingua che non solo è contaminata, non solo contamina, ma è la lingua che parla alla quotidianità, alla gente del territorio e così anche i cantores che costituiscono una rappresentazione fondamentale del recupero di questa tradizione.

Le donne in costume ci restituiscono questa dimensione, questa rappresentazione, così come gli uomini in costume, e non è detto che sia le donne che gli uomini siano la rappresentazione soltanto di un mondo pastorale. C’è un mondo in cui gli intrecci delle etnie, le contaminazioni etniche sono ben considerate, ecco perché parlo spesso di contaminazione vera e propria, così come i bambini vestiti in costume che offrono una tangibile dolcezza e tenerezza di un mondo che loro vivono come modello di educazione, come modello di apprendimento, come modello di necessità di conoscere, quindi un modello culturale e pedagogico.

Tutto questo rientra in una visione demoetnoantropologica. Ho parlato di lingua, quindi siamo nella visione della demoetnoantropologia. Ho parlato di parametri etnici, della lingua in sé, delle contaminazioni in sé. Il mondo nuragico non è soltanto una questione archeologica, ma è anche una questione antropologica. L’antropologia si fonda proprio sul recupero di questo insieme in cui l’uomo si confronta con il territorio, l’uomo e il territorio che recuperano il senso della civiltà o delle civiltà che sono state identità all’interno di questo territorio.

È affascinate constatare che il ballo tondo, di cui parla Grazia Deledda, è lo stesso ballo tondo che abbiamo trovato in molte altre civiltà: nella cultura adriatica, nei Balcani, nella cultura araba, nella cultura che mette in scena Pirandello nella “Giara”. Questo ballo tondo è molto diffuso soprattutto in quelle dimensioni in cui la circolarità diventa uno “stare insieme”. Lo “stare insieme” nella circolarità è un abbracciarsi, è un ritrovarsi, un ritornare. Il ballo tondo è la metafora del nostos, questo è il dato significativo.

Galtellì, a mio avviso, è una di quelle realtà che va riconsiderata e ricontestualizzata  non soltanto nella cultura sarda, ma in tutto quel contesto di etnie sommerse che oggi si muovono all’interno della temperie del contesto italiano. Ci troviamo di fronte ad una etnia storica, ad una realtà che presenta le sue testimonianze, le sue valenze simboliche, perché ogni oggetto ha una simbologia, ogni colore ha una sua rappresentazione simbolica e ogni visione linguistica diventa una dimensione di un fascino rituale e, a volte, di un fascino mitico. Senza il rito e il mito non è possibile comprendere queste realtà che sono realtà profondamente antropologiche.


La Sardegna è questa visione. Se da una lato abbiamo un mondo che è quello catalano di Alghero (i rapporti di Alghero con la Catalogna sono evidenti) l’interno della Sardegna, ovvero Sassari fino a Nuoro e fino a Galtellì, si presentano come realtà avente una diversa struttura anche mentale in cui tutto viene legato dalla simbologia che offre il mito. La simbologia che si ricava dalla ritualità, dal rito, ha un’espressione forte, consistente che è data dagli archetipi che si muovono nella realtà che presentano dimensioni etnoantropologiche. È un solo spaccato, non solo delle etnie, ma della Sardegna, e in Galtellì si vivono quelle considerazioni e constatazioni che Grazia Deledda ha rappresentato nei suoi libri.

“Canne al vento” resta un romanzo forte nella sua dimensione, nella sua avventura dei personaggi. Si pensi a Lia, a Noemi, personaggi che hanno una simbolicità forte, ma è anche un romanzo dalla profonda necessità scavante nel territorio. Il territorio, i luoghi, i personaggi e l’uomo sono dimensioni di un’antropologia che oggi entra all’interno di una strategia che è la strategia dei beni culturali. La Sardegna è una antropologia (o meglio una demo-etnia-antropologica) delle identità mai perdute. I suoi romanzi hanno il senso di tutto questo sia sul piano di una estetica fenomenologica che sul versante letterario e storico. D’altronde la fenomenologia si completa e diventa tale se ha nel suo interno un pensiero – pensare antropologico.

 La chiusa del capitolo VII di «Cosima» è il tutto e la ricchezza del niente di una intera vita: «…erano tutti imbevuti del pregiudizio che ella non potesse, con quella sua passione dei libri, diventare una buona moglie: né, d’altronde, ella voleva più umiliarsi con nessuno. E fu in quel momento che le venne l’idea di muoversi, di uscire dal ristretto ambiente della piccola città, e andare in cerca di fortuna. Per dare consolazione alla madre».

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