TARANTO, LE SUE BELLEZZE, LA SUA GENTE, IL SUO DIALETTO
Dialogo immaginario, camminando tra i ricordi e le vie della città
Gradirei sentirti parlare, Mara, del borgo antico, formicolante di persone che parlano un dialetto molto più ricco di suoni di quello in uso al di là del ponte di ferro, che lega due città diverse. Gradirei sapere, per esempio, di vico Madonna del Pozzo, “’nu strìttele” – come direbbe Alfredo Nunziato Majorano, poeta ed etnologo – dove, quasi 70 anni fa, peregrinando, notai, unico ricordo, una porta sbarrata, senza un ragazzo che giocasse e una voce che rompesse il silenzio. Ascolterei con attenzione i tuoi racconti sulla via di Mezzo, che da giovane percorsi molte volte, diretto alla chiesa di San Domenico, i cui gradini erano una penitenza per i vecchi che non volevano rinunciare alla cerimonia serale. Curiosavo davanti ai negozi che vi si aprivano: in uno, attraverso la vetrina, sbirciavo un signore anziano con la testa pelata china su un oggetto, forse un orologio.
Ho desiderio di sentirti descrivere Piazza Fontana di una volta, alla quale un altro grande poeta, Diego Marturano, dedicò versi struggenti, che, leggendoli ti s’imprimono sul cuore. Li ripesco spesso, gentile Mara. Tu nella città vecchia sei nata e cresciuta, e dovresti avere memoria di luoghi, abitudini, vicende, volti, atteggiamenti, caratteri, vite private. Individuai un pittore che custodiva dentro di sé tanti aspetti di questo borgo, che mi segue idealmente ovunque, e li traduceva sulle tele stando seduto davanti al cavalletto nell’atrio del suo stabile, invecchiato, screpolato, striminzito, neppure immaginabile dall’esterno. Una lama di sole vi s’infilava quasi clandestina e lo illuminava. La sorella era stata la mia professoressa d’italiano alle medie: una donna pallida, senza sorrisi, timida, quasi schiva. L’artista mi portò da lei e lei mi accolse con un semplice “ciao”, ritirandosi subito.
Non arrivava qui il profumo del mare, eppure la città vecchia dal mare è abbracciata: anzi, due mari, il Piccolo e il Grande, “’u peccerìdde” e ‘u Màre Grànne”, che ha al largo “l’anìedde de san Catàvete”. Tu giuri di saper poco della città vecchia, gioiello che emerge dall’acqua come un dio greco, perché generata come dici ai suoi margini, all’inizio di corso Vittorio Emanuele. Peccato. Posso solo invidiarti, per avere respirato quell’aria. Giacinto Peluso, scrittore esimio, aveva avuto i natali anche lui da quelle parti e delle sue esperienze ha riempito libri pregevoli che calamitano il lettore: “Taranto, da un borgo all’altro”, il primo titolo che mi viene in mente. In quelle pagine ritrovai i giorni del lume a petrolio, imparai i nomi dei suoi vari elementi: ‘”u bècche”, “’a gazzettèlle”, quel nastrino che scende nel serbatoio, pescando il liquido che alimenta la fiammella. E appresi che “’a bonafeciàte”, cioè la ricevitoria del gioco del lotto, era in un punto dell’Isola, ma non so più dove precisamente.
Sono state quasi sempre solitarie le mie passeggiate nella città vecchia: un ciborio, per me. Marturano e Maiorano scrissero fra l’altro “Tàrde vècchie mjie”, con la dolcezza di chi sentiva di appartenerle. Maiorano ci andava anche per ascoltare la musica del dialetto, quello che fioriva sulle labbra dei venditori di cozze, “le cuzzarùle”, e dei pescatori. Anch’io pendo da quelle labbra quando faccio la ronda ai bordi del Mar Piccolo. Alcuni anni fa mi accompagnavo a Piero Mandrillo, docente dalla cultura poliedrica e dall’umanità toccante. Visitavamo la Dogana (“’a Duàne d’u pèsce”, come si chiamava allora), dove facevamo scorpacciate di frutti di mare. Piero stava studiando la parola “chiùdde” e la sua derivazione, parola che io non uso, perché ha diversi significati e tutti poco lusinghieri.
Mi affascina, il nostro dialetto, che tu, Mara, non hai rinnegato, anzi lo hai innaffiato. E mi attira il grido del titolare del banco: “Na’, uàrdele, l’uècchie de ’stu pèsce”, jè vìve. mìene l’acqua uagnò’”. E fresco è, appena scaricato dal peschereccio, “’a paranze”. Facendo due passi oltre il ponte di ferro, c’è tanto da vedere e da apprendere. ”’U pònde de pètre” è anche un balcone sul tratto di mare che ospita le case galleggianti, gli yacht”, che destano invidia in tanti, e orgoglio in chi li possiede. E svoltando a destra ecco la Ringhiera che porta al Castello. Vagabondando sul “marciapiedi” d’“u pònde de fìerre” cogli la scenografia del mare e ti soffermi per la goduria dell’olfatto.
Non mi lascerei mai alle spalle Taranto vecchia, panorama benedetto. Domando a un pescatore che, acculato sul pavimento, rammenda la rete: “Scusi, come si traduce barca nel suo dialetto?”. “Schife”. Ci penso e mi dico: “Già, schife, scafo”. “E in tasca?”. “’Mbòte”. Servito. Ma non posso schivare la domanda: “Tù’ d’addò avìene? Sì’ furastìere?”. Mi addolora sentirmi definire estraneo nella mia terra, comunque sono un transfuga, un espatriato, forse anche un traditore. E non ho il diritto di cercare la mia città nelle sue pieghe.
Ma almeno posso assaporare il vernacolo, gustarlo. Qui le voci sono suoni, che si susseguono, si accavallano, s’intrecciano, s’inseguono. Un’orchestra. L’armonia del nostro dialetto a volte mi stupisce. M’inoltro in un vicolo pieno di nasse, per terra, appese al muro, attorno ad un vegliardo incartapecorito con l’uncino in mano intento all’opera di restauro. Scatto una foto, lui sorride, si mette in posa, ne aspetta un’altra. Che gioia, Mara, assistere a questi spettacoli. Scendo verso la via principale e mi arriva improvviso un urlo a squarciagola: “Le còzze, le còzze d’u Màre Peccerìdde, òre so’!”. Sono davvero l’oro di Taranto, i mitili: la sagoma di uno scafo e un sapore indescrivibile. Mi viene in mente una poesia di Saverio Nasole sul venditore di cozze, anzi su quello che le coltiva, che “no’nge jè sciardenìere e tène ‘nu sciardìne”: non è giardiniere e ha un giardino.
Grandi i poeti di Taranto. I giovani li leggono, Mara? Hanno sfogliato le pagine di Nerio Tebano o di Diego Fedele? O di Antonio Torro, a cui Antonio De Florio ha dedicato un video su facebook?”. Devo bloccare il flusso della memoria, altrimenti vado oltre, rispolverando altri versi, dove trionfa l’ironia, il doppio senso, ma con garbo, quasi con eleganza. Fin dall’antichità Taranto ha avuto i suoi poeti. Perfino Orazio, amico di Mecenate, decantò il Galeso, che però non piacque al Gissing, giunto molto più tardi. Io, Mara, il Galeso, lo adoro. Bisogna averne cura, venerarlo. Taranto non rispetta le sue glorie.
Placido, silenzioso, il Galeso continua a percorrere la storia ed è trascurato, ignorato, vilipeso. Svegliati, Orazio, lancia il tuo “cahièr de dolèance”. Tu che avresti voluto essere sepolto su queste sponde, ai tuoi tempi frequentate da pecore dal vello pregiato. Vedi, Mara? Taranto è una città amabile, ricca di luce, con tramonti policromi, angoli suggestivi, ma difetta nella valorizzazione dei suoi tesori. So che prima o poi metterai ordine nei tuoi ricordi e mi parlerai della città vecchia dei giorni della tua giovinezza. Io ricordo qualche nome e qualche soprannome della mia. Sul pendio di San Domenico intercettai “Cicce ‘a caggiòle”, che volava con le braccia spalancate come volesse imitare il gabbiano. E alla stazione ferroviaria un uomo conosciuto da ragazzo che mi aprì la porta del suo tassì.
Un mondo mi si spalanca, Mara, quando rimetto piede in quel pezzo di città che sa di antico, non di vecchio. Toh, altro ricordo: la cappella sconsacrata che il parroco, don Stefano Ragusa, trasformò in teatro per consentirci di organizzare delle recite, come “Il piccolo ateo”, un testo scritto da me rubacchiando qua e là (avevo 16 anni). Tu, figlia di un ufficiale piemontese, parli bene il dialetto, modello tua madre, che non ti ha imposto l’italiano come la mia, che lo considerava poco dignitoso, deviante. Io disubbidivo e quando lei non c’era mi dilettavo sfornando termini onomatopeici, come “’U travàgghie d’u màre” (il travaglio del mare), di Alfredo Lucifero Petrosillo, un canto che ti coinvolge, ti trascina, ti esalta e ti commuove. Cercavo di far capire alla mia mamma che il dialetto è la nostra anima, che lì prolificano le nostre radici, ma lei non voleva saperne.
Seguivo le orme di Alfredo Nunziato Maiorano nella città vecchia e anche nel mio esilio non smetto di usare la parlata che mi è cara. E sfoglio “Zazzarèddere”, un piccolo libro dello stesso Maiorano, dove campeggia una sua foto in cui tende l’orecchio alle confidenze di una persona anziana. Desidero tanto avere una guida per esplorare i punti meno visibili di questa città. Nicola Giudetti? E chi lo smuove dal suo museo. Da lui posso raggranellare “fògghie”, foglie, di vernacolo cataldiano e conoscenze di famiglie che abitarono la sua …corte, ma, incardinato com’è fra ricostruzioni di settimane sante in terracotta e pezzi di modernariato e quadri, sarebbe difficile distrarlo.
Concludo il giro in piazza Fontana, che non è più quella di un tempo: rifatta da un artista assiduo alla Biennale di Venezia, Nicola Carrino, che conobbi una vita fa nello studio del pittore Giuseppe Pignataro, che era nell’androne di un palazzo di via Di Palma, di fronte al negozio di scarpe di Luigi Protopapa, artista a sua volta (usava i rimasugli delle pelli).
Un giorno, Mara, spero di poter cogliere fra i tuoi fiori di campo ciò che odora di “Taranto vecchia”. Taranto antica: il suo ventre.
Franco Presicci