Intervista al tenore Leonardo Cortellazzi

 

Opera Liegi, il tenore Leonardo Cortellazzi è Tito «un ruolo gratificante… una rivincita sul mio passato». L’intervista

A Liegi per la prima volta arriva La Clemenza di Tito in una nuova produzione de l’Opéra Royal de Wallonie-Liège e sarà in scena dal 15 al 24 maggio per poi fare tappa al Palais des Beaux-Arts di Charleroi mercoledì 29 maggio. Il M° Thomas Rösner dirigerà l’orchestra, la regia sarà di Cécile Roussat e Julien Lubek. Nel ruolo di Tito il tenore Leonardo Cortellazzi, che abbiamo intervistato.

Qual è stato il suo primo approccio con l’opera?

Quando ero ancora un giovane studente del Conservatorio Boito di Parma ebbi la possibilità di fare un’audizione per Clemenza di Tito, quell’esperienza fu un vero disastro… ero impreparatissimo e acerbo ma fu un episodio importante perché mi diede una grande impulso per studiare e crescere e mi ripromisi che prima o poi avrei debuttato Tito in un grande teatro e mi sarei preso una rivincita sul mio passato. Potete immaginare quale sia la mia gioia ora nel poter finalmente debuttare il ruolo e potermi cimentare in un’opera capolavoro che rappresenta per il tenore una grande sfida vocale e interpretativa.

E come artista?

Più che artista credo che la miglior definizione sia interprete e come interprete Tito è un grande punto d’arrivo: da un lato occorre una grande maturità tecnica e vocale perché, come sempre, la scrittura Mozartiana è un compendio di difficoltà, finezze e stile e dall’altro, dal punto di vista scenico ed interpretativo, la grande difficoltà è quella di modellare la monumentalità e la rigidità del testo e del carattere di Tito per renderlo comprensibile al pubblico, facendo capire l’evoluzione del personaggio, le sfaccettature del ruolo trasmettendo con la voce e il corpo il travaglio di questo uomo che regge sulle proprie spalle un grande potere, grandi responsabilità e che riesce a gestire tutto questo peso lasciandosi guidare dal suo cuore puro e dalla sua sensibilità.

Si parla molto di come riavvicinare il pubblico all’opera: lei che ne pensa? a suo avviso, il pubblico è più attratto da messe in scene «tradizionali» o più «sperimentali»?

Nel 2019 sono convinto che il pubblico a cui ci rivolgiamo sia sempre meno «melodrammaticamente» acculturato, sempre più le platee che ci troviamo di fronte sono composte da persone che non arrivano a Teatro spinti da una profonda passione operistica e da una grande conoscenza delle voci e dell’opera in sé ma la gran parte del pubblico vive l’Opera come uno spettacolo che deve intrattenere e colpire l’attenzione entrando in competizione con tutte le altre forme di intrattenimento di cui quelle stesse persone possono fruire. Data questa premessa, avvicinare il pubblico all’opera significa rendere quest’ultima intrattenitiva ed efficace: al di là della distinzione tra regie tradizionali e sperimentali, quello che deve essere al centro del nostro interesse è puntare a colpire l’attenzione del pubblico. Per colpire l’attenzione si deve prima di tutto rendere onore alla musica, interpretare al meglio i ruoli che ci vengono affidati, cercando sì di cantare al meglio, ma più di ogni altra cosa essere sempre vivi sul palco per essere credibili e veri per far sì che chi è in platea possa immedesimarsi, possa credere veramente in quello che vede e possa essere trasportato in un mondo diverso da quello da cui proviene. Tradizionali o meno, le regie, insieme agli interpreti, devono fidarsi della magia della musica ben eseguita e devono tutti insieme essere uniti e convinti della bontà del progetto che stanno proponendo al pubblico. Il progetto deve naturalmente reggere per tutta la durata dell’Opera e deve proporre delle chiavi di lettura che siano affascinanti sia da un punto di vista visivo che da un punto di vista interpretativo, un bel messaggio chiaro e forte sostenuto da immagini che lo sottolineino e che aiutino a capirlo e, se possibile, condividerlo. Nella mia carriera mi è capitato di partecipare a regie molto tradizionali di grande successo perché avevano questi ingredienti, e regie sperimentali che, nonostante un dispiegamento di forze e di risorse ben superiori, non riuscivano a colpire l’attenzione e il cuore del pubblico. Naturalmente è avvenuto anche il contrario.

Si ricorda l’ultima opera che ha visto da spettatore? Come è stata?

Nel mese di marzo mi trovavo ad Amsterdam per la ripresa di Fin de partie di Kurtag, un progetto che ha avuto e sta ancora avendo immenso successo con premi e riconoscimenti da tutto il mondo; all’interno del festival Opera Forward di cui Fin de partie faceva parte ho avuto la possibilità di andare a vedere The Girl of the golden west scritta da John Adams e con la regia di Peter Sellars.

Questo spettacolo, ahimè, è stato proprio uno di quegli esempi in cui, a mio parere, un grande dispiegamento di forze e di denaro non hanno prodotto un mix magico in grado di catturare l’attenzione e coinvolgere lo spettatore: ho ascoltato voci molto belle, ho visto una regia moderna e accattivante ma in questo caso mancavano due ingredienti essenziali, la magia della musica e la storia.

I giudizi su «La clemenza di Tito» sono contrastanti…

I libri di storia dicono che Clemenza di Tito fosse stata composta da Mozart in soli 18 giorni, una commissione arrivata molto tardi per creare uno spettacolo per la celebrazione dell’incoronazione al trono di Leopoldo II come re di Boemia. A mio parere il giudizio su questa composizione deve tenere in considerazione la brevità del tempo dato a disposizione a Mozart, la circostanza dell’incoronazione di un re, e ancor di più il libretto tratto dal dramma di Metastasio. Trovo che Clemenza di Tito sia un capolavoro di equilibrio e di misura: Mozart in età matura, con tutta la sua arte compositiva al massimo della potenzialità, affronta un dramma serio, il suo ultimo lavoro teatrale, e lo rende umano, vivo e, a mio parere, dove il libretto lo permette, ne aumenta la drammaticità.

Sul piano vocale quali sfide comporta?

Come ho sottolineato in precedenza, sul piano vocale il ruolo di Tito rappresenta una prova di maturità: prima di tutto il peso e il colore della voce devono essere importanti e credibili per rendere credibile il personaggio stesso e la sua autorevolezza, in secondo luogo occorre padroneggiare molto bene l’uso del piano e delle mezze voci per provare a sottolineare le finezze stilistiche della scrittura mozartiana ma anche dare spazio alle debolezze del carattere di Tito, in terzo luogo si deve cercare con l’elasticità della voce e la pronuncia di dare vita ai lunghi recitativi che hanno un peso pari se non superiore alle arie. Infine, è necessario avere un grande controllo dell’intonazione e padroneggiare le colorature.

E su quello “attoriale”?

L’attorialità va di pari passo con la sfida vocale, in queste settimane di prova ho avuto modo di approfondire e capire meglio le evoluzioni del carattere del personaggio e scenicamente sarà importante per me cercare di sottolineare questi cambiamenti rendendo Tito un ruolo vivo, mutevole e che possa entrare in empatia con il pubblico.

Le piace il suo personaggio? in che cosa soprattutto?

Amo moltissimo avere la possibilità di interpretare ruoli seri e autorevoli perché aiutano ad avere forza comunicativa sul palco: sono spesso accompagnati da scene maestose e corali e dall’altro lato è affascinante poter scoprire le debolezze e le sfumature che rendono questi personaggi vicini e comprensibili. Tito è tutto questo, un ruolo che amo molto perché mi fa sentire a mio agio da un punto di vista vocale e senico, perché mi rivedo nei suoi tormenti e nella sua ricerca della verità e di una giustizia che tenga in considerazione non solo i fatti ma anche le debolezze dell’animo umano. È un ruolo gratificante.

Quale insegnamento porta sempre con sé sulla scena quando canta e interpreta un ruolo?

Sul palcoscenico cerco sempre di tenere in considerazione allo stesso tempo tre ingredienti fondamentali: 1. la qualità del canto e quindi la massima concentrazione sulla tecnica vocale e sulla consapevolezza di quanto sto facendo 2. cerco di fissare nella mia mente e di far vivere con il mio corpo il pensiero fisso che possa in quel momento far vivere il personaggio (il dubbio, la rabbia, la gioia, il dolore, ecc) 3. con la postura, con il linguaggio del corpo ma soprattutto con l’orecchio cerco di restare sempre in ascolto rispetto a ciò che avviene sul palco intorno a me specialmente quando non devo cantare ma devo sostenere con «i piani d’ascolto» lo sforzo dei miei colleghi. Il vero grande interprete credo sia colui che è in grado di unire con armonia e naturalezza questi tre ingredienti portandoli al massimo livello in ogni momento dello spettacolo. Giovanni Zambito.

Cast: https://www.operaliege.be/spectacle/la-clemenza-di-tito/#show

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