Raboni oggi: la voce necessaria della poesia civile

Carlo Di Stanislao

«Un poeta è sempre nel mezzo. Anche quando tace.» — Giovanni Raboni

A cent’anni dalla nascita (1923–2004), Giovanni Raboni è ancora una delle voci più vive e necessarie del secondo Novecento italiano. Poeta e intellettuale appartato, ma lucidissimo, ha saputo fondere linguaggio lirico e sguardo civile come pochi. Non ha mai urlato, ma ha sempre detto: con misura, con precisione, con ostinata fedeltà alla verità delle parole.

Rileggerlo oggi è un atto di resistenza, ma anche un’esigenza. Perché Raboni non è solo “storia letteraria”: è ancora presente, nella lingua e nello sguardo, nella sua idea di poesia come atto morale, come gesto umano prima che letterario.

Una poesia dentro il mondo

La poesia di Raboni non fugge dalla realtà, ma la attraversa. Non per spiegarla, ma per trattenerne l’intensità e il dolore, le luci minime e le grandi fratture. Milano, la città che amava e osservava con occhi disillusi, è scenario costante: non solo luogo fisico, ma paesaggio dell’anima, specchio del cambiamento sociale e interiore.

Nei suoi versi la città non è mai neutra, mai solo sfondo: è storia viva, corpo ferito, luogo della memoria e della scomparsa. Una Milano in cui il “ferro dei balocchi” si scontra con la disillusione della modernità, ma anche con una malinconia costruttiva.

E in ogni libro, da Le case della Vetra fino a Ultimi versi, il tono resta inconfondibile: una lingua sobria, che rifugge l’enfasi, capace di un’empatia profonda, mai sentimentale, sempre sorvegliata.

Il critico che prende posizione

Ma Raboni non è stato solo poeta: è stato anche un critico letterario radicalmente libero, capace di posizioni scomode e coraggiose. Celebre — e ancora discussa — la sua lucida presa di distanza da Eugenio Montale, di cui pure conosceva e apprezzava la grandezza.

Raboni riconosceva in Montale una qualità stilistica altissima, ma ne criticava il pessimismo sterile, il venir meno dell’impegno civile negli anni della maturità, e soprattutto l’incapacità di fare i conti con il proprio tempo. In un’intervista dichiarò: «A un certo punto, Montale ha smesso di parlare al mondo. Ha scelto di nascondersi dietro l’eleganza del disincanto. A me non basta.»

Era un giudizio impopolare, soprattutto in un’Italia che aveva santificato Montale con il Nobel. Ma Raboni credeva che la poesia non potesse essere solo esercizio di forma o ritirata elegante, e lo diceva con franchezza: anche a costo dell’isolamento.

Allo stesso modo, fu uno dei pochi a denunciare le derive clientelari del sistema letterario italiano, prendendo la decisione — altrettanto rara — di uscire dalle giurie dei premi letterari. Non per snobismo, ma per coerenza. Dichiarò: «Quando ho capito che le decisioni erano prese altrove, e che la qualità contava sempre meno, ho preferito andarmene.»

In anni di conformismo editoriale e opacità culturale, questi gesti valgono quanto un libro.

Poesia e responsabilità

Raboni non ha mai separato poesia e pensiero. Ogni suo verso è anche una posizione, una scelta. Da critico militante e traduttore eccellente (Proust, Baudelaire, Mallarmé), ha praticato una letteratura vissuta, dialogica, solidale.

Nei suoi articoli e interventi pubblici — mai accademici, sempre limpidi — ha difeso con forza l’autonomia della cultura, la funzione critica della poesia, il suo potere di interrogare il mondo senza cedere a mode o compromessi.

E oggi, in un’epoca in cui la parola sembra inflazionata e svuotata, la sua voce torna come argine, come bussola, come gesto di pulizia intellettuale e di coscienza.

I maestri di Italo Nostromo

Questa stessa esigenza etica, questa fedeltà alla parola e alla realtà, è ciò che riconosce in lui il poeta contemporaneo Italo Nostromo, che — non senza ironia — si definisce “poeta per fatica”.

Nostromo guarda a Raboni come a uno dei suoi maestri interiori, insieme a Pasolini, Ungaretti e Mario Luzi.

Da Raboni eredita il tono discorsivo e la malinconia consapevole, il rapporto con lo spazio vissuto come corpo e segno, la cura della lingua come responsabilità. Ne condivide anche l’attitudine: schiva, sobria, resistente.

Da Pasolini prende l’urgenza morale, la parola come denuncia, la poesia come ferita e come scomoda necessità.

Da Ungaretti la densità verticale, la ricerca di senso attraverso la sottrazione e il silenzio.

Da Luzi infine l’apertura all’altrove, la tensione metafisica, l’idea che il verso sia un varco e non una definizione.

In questo pantheon ideale, Raboni è il punto più umano, più vicino al presente, più concretamente politico: quello che insegna che si può scrivere senza urlare, ma dicendo tutto.

Una voce che ci riguarda

Perché rileggerlo oggi? Perché la sua poesia ci interroga come cittadini e come persone. Perché racconta un’Italia concreta, fatta di corpi e cemento, ma anche di coscienze in ascolto. Perché è uno dei pochi che ha saputo dare forma alla malinconia senza cadere nel lamento, uno dei pochissimi che ha saputo difendere la dignità della parola anche nel rumore.

Raboni è ancora necessario. Non perché sia stato giusto, ma perché è stato onesto. Non perché avesse soluzioni, ma perché non ha mai smesso di porsi domande. In questo è stato — ed è — un maestro silenzioso, un testimone che parla ancora.

Inedito di Italo Nostromo

Per Raboni (2024)

Non ti ho incontrato mai, Giovanni,
ma ti conosco.
È nei giorni neutri che mi raggiungi,

quando la strada è una frase senza ritmo
e la luce sembra una nota sbagliata.

Non c’è città nei tuoi versi —
ma un’idea di città,
come un’eco sulle scarpe asciutte.

Non ho tram né nebbie,
solo bordi di provincia
e chilometri senza gloria,

ma tu parli anche qui,
tra questi campi in cui
la malinconia non ha storia.

Così cammino piano,
in un italiano disossato,
come insegnavi tu:
dirlo tutto,
ma senza gridare mai

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