Carlo Di Stanislao
Da Pasolini a Benigni, un viaggio tra potere, ironia e verità. Si è spento a Roma, a 88 anni, uno dei volti più lucidi e inquieti del cinema italiano.
«Non andartene docile in quella buona notte. Infuria, infuria contro il morire della luce.» — Dylan Thomas
La morte di Paolo Bonacelli, avvenuta a Roma all’età di 88 anni, è una di quelle notizie che sembrano chiudere una stagione del cinema italiano. Non solo perché Bonacelli apparteneva a una generazione di interpreti formatisi nel teatro e approdati al cinema come a un territorio di esplorazione morale, ma perché in lui convivevano rigore e inquietudine, controllo e vertigine. Era un attore di pensiero, di mestiere e di corpo, capace di attraversare mezzo secolo di teatro, cinema e televisione senza mai ridursi a “faccia nota”.
Nato a Roma il 28 febbraio 1937, Bonacelli si formò alla scuola del teatro classico, che per lui non fu mai solo palestra tecnica, ma luogo di interrogazione etica. Amava Pirandello e Shakespeare, ma anche Brecht e Molière: autori che costringono l’attore a misurarsi con il gioco della maschera, con l’ambiguità dell’essere e dell’apparire. Da questa radice teatrale derivava la sua capacità di dare spessore e misura a ogni parola, a ogni silenzio.
Negli anni Sessanta e Settanta divenne presenza riconoscibile nel panorama teatrale italiano, ma fu il cinema a consegnarlo alla memoria collettiva. Pier Paolo Pasolini lo volle in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), affidandogli uno dei ruoli più duri e memorabili: uno dei quattro signori che incarnano il potere e la violenza del dominio borghese. Bonacelli, con il suo sguardo freddo e controllato, seppe dare al personaggio un’inquietudine che andava oltre la crudeltà di superficie. In quel film, forse il più controverso e discusso del Novecento italiano, Pasolini trovò in lui un interprete capace di restituire l’intelligenza del male: un volto che sapeva pensare.
Dopo Pasolini, Bonacelli continuò a muoversi tra autori di rango. Lavorò con Michelangelo Antonioni, Lina Wertmüller, Liliana Cavani, Francesco Rosi, Peter Yates, John Boorman, e molti altri. Ogni incontro diventava una tappa della sua esplorazione del potere, della colpa, della libertà. In Fuga di mezzanotte (Midnight Express, 1978) di Alan Parker, interpretò Rifki, un detenuto ambiguo e crudele, in una performance che gli valse riconoscimento internazionale. Non era comune, allora, che un attore italiano venisse notato da Hollywood senza tradire la propria identità artistica. Bonacelli portava nel film la stessa intensità con cui affrontava il teatro: mai un gesto superfluo, mai una parola detta per compiacere.
Eppure, la sua carriera non si lasciò mai imprigionare da un solo registro. Dietro la durezza dei ruoli drammatici c’era un’ironia sottile, spesso mascherata da distacco. Quella vena trovò spazio nella collaborazione con Roberto Benigni, che lo volle accanto a sé in Johnny Stecchino (1991). Lì Bonacelli interpretava l’avvocato D’Agata, personaggio viscido, furbo e irresistibilmente umano, in cui seppe coniugare misura comica e ambiguità morale. Per quella prova ricevette nel 1992 il Nastro d’Argento come miglior attore non protagonista. Fu un riconoscimento simbolico: il suggello di una carriera in cui la comicità non era evasione ma intelligenza, una forma altra della verità.
Chi lo ha conosciuto racconta di un uomo riservato, ironico, colto, dotato di una curiosità inesauribile. Non amava le interviste né le etichette, e parlava del mestiere d’attore come di un “artigianato dell’anima”. Diceva che recitare è “fare luce su ciò che non si vede”, frase che oggi suona come il manifesto della sua vita artistica. Bonacelli non recitava per apparire, ma per scavare. Ogni personaggio diventava una soglia, un varco tra il visibile e l’invisibile.
Nel suo percorso si riflette la storia stessa del cinema italiano del secondo Novecento: dal realismo di Pasolini e Rosi, all’alienazione moderna di Antonioni, fino alla leggerezza visionaria di Benigni. Ma anche nella televisione seppe mantenere uno stile inconfondibile, fatto di misura e precisione. Non cercava mai la popolarità, e forse per questo la sua immagine è rimasta limpida, priva di sovraesposizioni.
Riguardare oggi le sue interpretazioni significa riascoltare una voce che non recitava solo battute, ma pensieri. Bonacelli apparteneva a quella categoria di attori che portano in scena l’interiorità del testo. Dietro il personaggio, lo spettatore intuiva sempre una coscienza vigile, un lavorìo intellettuale che trasformava ogni gesto in segno. Era, per usare le parole di Roland Barthes, “un corpo che pensa”.
Nei film di Cavani e Antonioni incarnò la frattura dell’uomo moderno, diviso tra desiderio e colpa; in Pasolini, la crudeltà come forma estrema di conoscenza; in Benigni, la leggerezza come resistenza al disincanto. Sempre, dietro ogni ruolo, emergeva la stessa domanda: come rappresentare la verità dell’uomo attraverso il gioco della finzione? Forse fu questa la sua ossessione artistica, la ricerca che unisce tutti i suoi personaggi, dal più oscuro al più ironico.
La morte di Bonacelli è anche un invito a riflettere sul destino dell’attore in un tempo che sembra aver smarrito il senso del mestiere. Oggi, nell’epoca dell’immagine rapida e del consumo seriale, il suo modo di intendere la recitazione appare quasi anacronistico: preparazione, disciplina, capacità di sottrarsi, di ascoltare. Ma è proprio in questa fedeltà al lavoro che risiede la sua attualità. Bonacelli non ha mai cercato di “farsi notare”: ha preferito farsi attraversare dai ruoli, lasciando che fossero loro a parlare.
Rivederlo oggi, in Salò, in Fuga di mezzanotte o in Johnny Stecchino, significa ritrovare una forma di presenza che il cinema contemporaneo raramente offre: quella dell’attore come testimone. Testimone del proprio tempo, della propria fragilità, del rapporto tra potere e libertà. La sua recitazione, anche nei ruoli minori, era un atto di resistenza contro l’oblio, un modo per dire che l’arte, se è sincera, non consola ma svela.
Il Nastro d’Argento ricevuto nel 1992 per il film di Benigni assume oggi un valore simbolico. Non solo come riconoscimento, ma come metafora di un legame: un “nastro d’argento” che unisce passato e presente, sorriso e malinconia. In quell’avvocato D’Agata, tra il grottesco e il poetico, Bonacelli trovò forse la sintesi di tutto il suo percorso: la consapevolezza che la vita è una commedia tragica, dove il confine tra serio e ridicolo è sottilissimo.
Con la sua scomparsa, il cinema italiano perde una voce appartata ma necessaria. Bonacelli rappresentava una tradizione di attori che non si limitano a interpretare, ma pensano il proprio lavoro come una forma di conoscenza. Era, come amava dire, “un artigiano del mistero”, e in questo mistero continuano a vivere i suoi personaggi.
Forse è per questo che la citazione di Dylan Thomas, posta in apertura, suona come un epitaffio naturale. Paolo Bonacelli non è mai andato docile in quella buona notte. Ha infuriato, artisticamente, contro il morire della luce — contro la banalità, contro l’oblio, contro la resa. E quella luce, la luce del cinema, continuerà a proiettare il suo volto ogni volta che qualcuno accenderà uno schermo per rivederlo.
Perché un attore, quando è vero, non muore: si trasforma in memoria.
