Carlo Di Stanislao
“Il mondo intero è un palcoscenico, e tutti gli uomini e le donne non sono che attori.”
— William Shakespeare
C’è un Arlecchino che si aggira per l’Italia. Non indossa più la maschera di cuoio né il costume a losanghe, ma un sorriso moraleggiante, una felpa con la scritta “pace” e una perenne indignazione selettiva. È l’Arlecchino postmoderno della sinistra italiana, pronto a servire due padroni: la coscienza e il consenso.
Il suo teatro preferito? Le università, i talk show, le piazze digitali dove si applaudono gli slogan e si fischiano le domande. È lì che va in scena la nuova commedia dell’arte morale, dove ognuno recita la parte del buono, del giusto, del difensore degli oppressi — ma solo di quelli che piacciono al pubblico di riferimento.
La maschera della purezza
Prendiamo l’ultimo atto, quello andato in scena tra le aule di Ca’ Foscari e le segreterie del Pd. Un deputato, Emanuele Fiano, figlio di un sopravvissuto ad Auschwitz, viene invitato a parlare. Si parla di Medio Oriente, di pace, di dialogo. Ma improvvisamente l’università, culla del pensiero critico, diventa tribunale dell’ortodossia. Si scopre che Fiano “non è neutrale”, e dunque non può parlare. La purezza ideologica, come nei vecchi regimi, non ammette sfumature.
E che fa la segretaria del Pd, Elly Schlein? Dice di non essere d’accordo, ma lo dice con la grazia di chi non vuole disturbare la scena. Il sipario resta aperto, gli attori si inchinano, e il pubblico progressista applaude se stesso. “Abbiamo difeso la libertà di parola — purché dica quello che vogliamo sentire.”
Le mani pulite (degli altri)
La sinistra italiana, che pure ha radici nobili, sembra oggi soffrire di un moralismo estetico. Non le interessa la giustizia, ma la gestualità della giustizia. È un teatro di pose: mani levate, tweet indignati, appelli firmati con la penna dell’intellettuale militante. Tutto purché non si debba sporcare davvero le mani con la realtà — che, come sappiamo, è piena di contraddizioni.
Così capita che chi denuncia la violenza israeliana si dimentichi di nominare Hamas. Che chi difende la libertà di Gaza non abbia mai speso una parola per la libertà dell’Iran. E che chi condanna i muri di Tel Aviv sia lo stesso che li innalza intorno alle proprie certezze morali.
Un Arlecchino che gioca a fare il rivoluzionario, ma che non rinuncerebbe mai al buffet dell’apericena universitaria.
Le università come palcoscenico
Non c’è teatro più vivace, oggi, delle università italiane. Ma non per la ricerca o l’innovazione: per la loro capacità di mettere in scena la coscienza collettiva. Ogni giorno un flash mob, un presidio, un documento “contro”.
Contro chi? Non importa. L’importante è essere “contro”.
Le facoltà sono diventate confessionali laici: lì si espia il peccato borghese di vivere bene in un mondo ingiusto. Gli studenti, spesso sinceri e appassionati, vengono arruolati in una liturgia di indignazione permanente. E i docenti, che dovrebbero insegnare il dubbio, si trasformano in sacerdoti della certezza. Così, invece del pensiero critico, si coltiva la sicurezza morale. Un dogma travestito da libertà.
Schlein e la compagnia dei doppi ruoli
Elly Schlein, a sua insaputa, è diventata la capocomica di questa compagnia. Il suo Pd recita la parte del partito moderno, ma resta prigioniero della nostalgia ideologica. Vuole essere governista e movimentista, liberal e radicale, atlantista e terzomondista. In ogni intervista indossa una maschera diversa, come Arlecchino davanti ai suoi padroni.
Solo che, a differenza del servitore bergamasco, Schlein non fa ridere: commuove, a volte irrita, ma raramente convince.
Il Pd di oggi sembra un teatro dove gli attori non ricordano più il copione. Si parla di diritti, ma si dimentica la realtà. Si invoca la pace, ma si teme la complessità. Si promette riformismo, ma si pratica il moralismo. È la sinistra della postura, non del progetto.
Il pubblico plaude, ma il sipario scricchiola
Eppure il pubblico resta lì, fedele. Applaude, ride nei punti giusti, s’indigna quando serve. È il pubblico delle bolle morali, quello che scambia la coerenza con la purezza e la contraddizione con il tradimento.
In questo gioco delle parti, la politica diventa spettacolo e la morale diventa decorazione. Gli intellettuali fanno la regia, i militanti le comparse, e il cittadino — quello vero — resta fuori dal teatro, in fila al botteghino.
Ma ogni spettacolo, anche il più ben recitato, ha un tempo limite. E il sipario, lentamente, scricchiola. Gli italiani, sempre più scettici, vedono la trama per quello che è: una rappresentazione di se stessi. La sinistra non parla più al Paese, ma al proprio riflesso nello specchio.
E in quello specchio, Arlecchino sorride.
Un Arlecchino senza padroni
Forse, allora, la sinistra avrebbe bisogno di un nuovo Arlecchino — non quello servitore di due padroni, ma uno capace di ridere di sé. Di riconoscere i propri errori, le proprie ipocrisie, le proprie debolezze.
Un Arlecchino che non tema di dire che Hamas non è un movimento di liberazione, che Israele ha diritto di difendersi, ma che la pace non si costruisce coi bombardamenti. Che non abbia paura di pensare, di contraddirsi, di cambiare idea.
Un Arlecchino che smetta di servire il padrone del consenso e torni a servire la verità — anche quando non piace, anche quando non conviene.
Fine primo atto
In fondo, la politica è davvero una commedia dell’arte. Ci sono i servi furbi, i vecchi moralisti, i giovani idealisti e i capitani arroganti. Ma nel teatro della sinistra italiana, manca la risata liberatoria, quella che smaschera e guarisce.
Finché non arriverà, continueremo a vedere lo stesso spettacolo: Arlecchino che si indigna, Pantalone che predica, Colombina che twitta, e il pubblico che applaude convinto di essere migliore degli altri.
Eppure, come diceva Pirandello, “ciascuno di noi è uno, nessuno e centomila”.
Forse il vero coraggio, oggi, sarebbe quello di togliersi la maschera.
E cominciare, finalmente, a parlare da uomini — non da personaggi.
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