PARTITI NUOVI E PROBLEMI VECCHI
Nuova classe dirigente cercasi
di Giuseppe Lalli
Le nostre democrazie liberali hanno bisogno di un’anima e di una mente che agiscano in permanente collegamento l’una con l’altra. Siamo di fronte ad una crisi di rappresentanza e i populismi e la demagogia, due facce della stessa medaglia, prosperano in questo vuoto. Non c’è bisogno di partiti personali, ma di partiti-società, vale a dire di soggetti politici che sappiano parlare alla società tutta intera e che non rinuncino ad una funzione pedagogica, alla quale tuttavia dovrebbero attendere associazioni culturali oltre a quelle tradizionali – la famiglia, la scuola, la Chiesa – che, facendo leva sulla stessa pubblica istruzione, da un lato contribuissero a formare la classe dirigente nei vari settori della società (economia, pubblica amministrazione, stampa ecc.), e dall’altro mettessero in piedi una sorta di camera di decompressione delle passioni.
A me non convincono i partiti a guida carismatica, cioè quelli che si identificano con un capo, il “grande semplificatore”, che si incarica di risolvere tutti i problemi per conto nostro. ‘Carisma’ vuol dire ‘dono ricevuto dall’alto’. Ebbene, non abbiamo bisogno di nessun uomo della provvidenza: ci è bastato averne fatto esperienza nel passato remoto e prossimo. Mi insospettisce anche chi dice di parlare al cuore. Bisogna parlare alla testa! Il cuore è troppo vicino alla pancia. I problemi delle nostre società sono complessi, e le soluzioni dipendono solo in parte dalla politica nazionale: dipendono sempre più, nel “villaggio globale”, dalla contingenza politica ed economica internazionale. Pertanto, credo che bisogna educare la gente a ragionare, e chi fa politica non deve accarezzare la pancia degli elettori, e nemmeno blandire il cuore più di tanto. Per questo ci sono gli artisti e i poeti.
E, soprattutto, occorre educare i giovani a crescere e a coltivare il rigore morale e il sapere critico. A tale scopo la scienza e la tecnica non bastano: si deve incoraggiare lo studio della storia, della filosofia, dell’arte, della religione. Non è sufficiente addestrare “pezzi di ricambio” per la macchina della produzione o “yes-men” che pigiano un tastino sul computer. La questione morale e la questione educativa sono le vere emergenze della nostra società.
Occorre far capire ai giovani che non bisogna inseguire i paradisi artificiali, né il sogno di una libertà senza limiti. Deve passare l’idea che l’impegno, nella vita, è tutto: il resto è solo scorciatoia, compresa la ricerca della raccomandazione. Ogni posto di lavoro o posizione ottenuti con il favoritismo e non con il solo merito è un furto sociale, che andrebbe perseguito penalmente, oltre che moralmente. Purtroppo le generazioni precedenti hanno offerto molto spesso un cattivo esempio. Nei decenni passati i partiti, nella pubblica amministrazione e nelle partecipazioni statali, sono stati uffici di collocamento. Altro che veicoli di idee!
In Italia scontiamo una patologica mancanza di senso dello Stato. Si sente ripetere in questi giorni la solita cantilena, anche da parte di rappresentanti di un partito nuovo che in poco tempo è diventato più vecchio degli altri, e cioè che bisogna “perseguire la grande evasione fiscale”. Nulla di più ipocrita. In Italia l’evasione fiscale è un fenomeno di massa: la somma della piccola e della media è molto più grande di quella «grande». Ecco: questa, come tante altre, è una di quelle verità che non dice nessun leader di partito, né vecchio né nuovo. Non è poi vero che in Italia dobbiamo rinunciare ad avere una classe dirigente politica degna di questo nome. Bisogna avere il coraggio di scelte impopolari, ma questo coraggio può venire solo se non si tira a campare. Occorre coltivare un’idea di società, altrimenti l’impegno pubblico si riduce ad un insopportabile narcisismo, che si tira dietro solo invidia sociale.
E con tutto ciò, non bisogna indulgere al pessimismo antropologico descritto dall’espressione “Siamo italiani”. Abbiamo esempi nella nostra storia nazionale cui attingere per perseguire una svolta. I politici dell’Italia post-unitaria, quelli della cosiddetta “destra storica” dettero nel complesso buona prova, e seppero coniugare competenza ed onestà con senso dello Stato, così come uomini della sinistra liberale quali Giovanni Giolitti (1842-1928) e Giuseppe Zanardelli (1826-1903), agli inizi del secolo scorso, seppero resistere ai progetti di restaurazione autoritaria, e in quel torno di tempo favorirono uno sviluppo economico della società italiana accompagnandolo con importanti riforme sociali.
Non basta ridurre il numero dei rappresentanti politici per trasformare una vecchia casta in una nuova classe dirigente, né basta cambiare il nome delle cose per realizzare un nuovo ordine civile. Serve, nella dimensione pubblica, una rivoluzione culturale, vale a dire: una politica duttile ma non opportunistica che sia sorretta da un pensiero forte che ispiri una lettura dei processi che attraversano la società e ambisca a guidarli.