Carlo Di Stanislao
»La grazia non è una giustizia più mite, ma una giustizia più profonda.»
— Victor Hugo
Il tema della grazia presidenziale si muove da sempre su un crinale sottilissimo, in bilico tra il rigore della legge e l’anelito alla giustizia sostanziale. L’articolo di Adriano Sofri ci riporta nel cuore di questo dilemma, analizzando la recente decisione del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di concedere una grazia parziale ad Ala Faraj, il giovane libico la cui vicenda giudiziaria ha sollevato interrogativi profondi sulla tenuta del nostro sistema punitivo e sulla capacità di distinguere la colpa dal destino.
La gratuità del dono: La prospettiva di Massimo Recalcati
Sofri apre la sua riflessione citando un accostamento quasi fatale apparso sulle pagine di Repubblica: da un lato il commento politico sulla grazia, dall’altro un’analisi di Massimo Recalcati sulla natura del dono. Per lo psicanalista, il dono autentico ha una struttura che scardina la logica dello scambio commerciale: esso è gratuito, imprevisto e, idealmente, dovrebbe tendere alla «cancellazione dell’ego».
Recalcati spinge la sua analisi fino a definire il dono come una «grazia insondabile», una possibilità inaudita che eccede ogni calcolo o previsione. In questa visione, l’incontro con l’altro — e il perdono che ne può derivare — non è il risultato di una transazione, ma un evento che trasforma il soggetto. Tuttavia, come nota Sofri, qui sorge il primo paradosso: può un atto istituzionale come quello di Mattarella coincidere con la visione filosofica di Recalcati?
La grazia istituzionale e il peso del nome
Nell’ordinamento repubblicano italiano, la grazia fatica a essere un «vero dono» nel senso puramente astratto. Essa è un atto politico e umano che deve essere motivato, firmato e rivendicato dal Capo dello Stato. Non può esserci l’anonimato auspicato da Recalcati; al contrario, la grazia è legata indissolubilmente al nome e cognome della persona che ne dispone in ragione della sua carica.
Se per Recalcati il dono è libertà assoluta, per il Presidente della Repubblica è un esercizio di responsabilità che porta con sé un «peso». Mattarella non può rinunciare alla gratitudine dei condannati né alla trasparenza verso i cittadini. La mano sinistra deve necessariamente sapere cosa fa la destra, poiché ogni atto di clemenza deve confrontarsi con il sentimento comune di giustizia e con l’autorità della magistratura.
L’ipocrisia del sistema e l’innocenza «implicita»
Un punto nodale sollevato dall’autore riguarda il rapporto tra la grazia e l’affermazione di innocenza. Esiste un’ipocrisia di fondo, talvolta alimentata da ex Presidenti come Oscar Luigi Scalfaro, secondo cui la grazia non potrebbe essere concessa a chi continua a dichiararsi innocente. La logica è ferrea quanto brutale: concedere la grazia a un innocente significherebbe sconfessare i giudici che lo hanno condannato, trasformando il Quirinale in un «quarto grado di giudizio».
Eppure, la realtà dei fatti — come dimostra il tragico caso di Beniamino Zuncheddu, libero solo dopo 33 anni di ingiusta detenzione — ci dice che i condannati non colpevoli popolano le nostre carceri in numero spaventoso. In questo contesto, Mattarella ha operato con estrema cautela, motivando la decisione per Ala Faraj attraverso fattori oggettivi: la giovane età al momento del reato (19 anni), l’eccellente comportamento durante la detenzione e le relazioni positive di educatori e magistrati.
Il caso Ala Faraj: Un «gioco delle parti» necessario
La vicenda di Ala Faraj è emblematica. Condannato come «scafista», il ragazzo ha sempre sostenuto la propria estraneità ai fatti, trovando sostegno in figure come don Ciotti, Gustavo Zagrebelsky e l’arcivescovo Corrado Lorefice. Paradossalmente, persino i giudici che avevano rigettato la sua istanza di revisione avevano ammesso che lui e i suoi compagni erano «moralmente non imputabili», raccomandando esplicitamente il ricorso alla grazia.
Questo incrocio tra la rigidità della legge e la flessibilità della grazia ha permesso di arrivare a una soluzione di compromesso: una grazia parziale (un terzo della pena condonato) che permette al giovane di intravedere la libertà senza che lo Stato debba ammettere esplicitamente l’errore giudiziario originario. È il bicchiere mezzo pieno che permette alla giustizia di non spezzarsi sotto il peso della propria presunta infallibilità.
La politica e l’assenza di clemenza collettiva
Sofri non risparmia critiche al Parlamento, che dal 1992 si è di fatto spogliato del potere di concedere amnistia e indulto. La riforma costituzionale varata durante la stagione di Tangentopoli ha introdotto la necessità di una maggioranza dei due terzi per approvare tali provvedimenti, rendendoli, di fatto, impossibili. Da oltre trent’anni, l’Italia non conosce un’amnistia, lasciando al solo Presidente il compito gravoso di intervenire sui singoli casi.
In questo vuoto legislativo, le reazioni politiche appaiono spesso come riflessi pavloviani. I «mugugni» della Lega di fronte alla grazia per uno «scafista» ignorano la complessità umana. Sofri conclude suggerendo che persino i leader più intransigenti, come Matteo Salvini, dovrebbero essere capaci di guardare al caso di Ala Faraj non come a un fascicolo burocratico, ma come alla storia di un giovane calciatore mancato che ha finalmente ottenuto un barlume di speranza.
Conclusione: La grazia come esercizio di umanità
In definitiva, la storia di Ala Faraj e la decisione di Mattarella ci ricordano che la legge, per essere autenticamente umana, deve conservare una valvola di sfogo per l’eccezione e per la misericordia. Sebbene la «grazia insondabile» di cui parla Recalcati appartenga alla sfera dell’amore e dell’incontro privato, il suo riflesso pubblico nella grazia presidenziale resta l’ultimo baluardo contro una giustizia che rischia di trasformarsi in cieca vendetta. Come sottolineato dall’esperienza personale di Sofri, vivere da «graziati» o da «disgraziati» non è solo una condizione giuridica, ma un profondo stato dell’anima che interroga la coscienza dell’intera società.
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