Carlo Di Stanislao
«La tradizione è la salvaguardia del fuoco, non l’adorazione delle ceneri.» – Gustav Mahler
Ci fu un tempo – neanche troppo lontano – in cui andare a una sagra significava entrare nel cuore vero di un paese. Ti sedevi su panche traballanti, parlavi con chi serviva e sapevi che quella minestra l’aveva fatta la signora Maria, quella del forno accanto al bar.
Si mangiava poco ma bene, si spendeva il giusto, si ballava con l’orchestra, e se pioveva pazienza: si ballava lo stesso, nel fango, coi sandali incrostati e il sorriso in faccia.
Poi sono arrivati i fondi. I bandi. I contributi.
E da lì, la trasformazione: la sagra ha messo il badge. È diventata “evento”, “esperienza gastronomica diffusa”, “punto di incontro tra tradizione e innovazione” (cioè griglia elettrica e salsa barbecue industriale).
Oggi la tipicità è una parola da brochure.
Giri per le fiere paesane e trovi la stessa fila di banchi da Cuneo a Siracusa: hamburger gourmet, pulled pork, panino con porchetta (ma in pan brioche), piadine vegane, birra belga alla spina e i soliti dolciumi preconfezionati made in provincia di Caserta, che girano l’Italia peggio delle boy band anni ’90.
Nel menù ci trovi: arrosticini, spiedoni texani, pizza fritta, tigelle, gnocco fritto, kebab, cassone romagnolo e – per non farci mancare niente – la paella.
“Ma scusate”, chiedi timidamente, “qual è il piatto tipico del posto?”
“Boh, credo la salamella. Ma la prendiamo già pronta.”
E giù foto sui social, con didascalie tipo “Sapori autentici della nostra terra”, con un chiosco di polpo alla gallega sullo sfondo.
La verità è che oggi le sagre sembrano organizzate tutte dalla stessa agenzia, con lo stesso fornitore, lo stesso impianto audio e lo stesso DJ che mixa i Måneskin e Al Bano.
Che importa se siamo a Capannori o a Terni: tanto ci sarà il food truck con la carne argentina e la grigliata “all’americana”. Autenticità a colpi di salse.
E i contributi piovono.
Perché l’importante è “animare il territorio”, non importa con cosa. Anche se l’evento si chiama “Sapori di Borgo Antico” e si tiene in un parcheggio asfaltato, con sedie bianche di plastica, musica trap e un maxi schermo per la partita.
Le amministrazioni sorridono: c’è movimento, c’è gente, i volantini sono stati distribuiti e abbiamo pure la tenda nuova della Protezione Civile.
Gli organizzatori sorridono: si coprono le spese, fanno girare l’economia.
I partecipanti sorridono: si mangia, si beve, si balla.
Tutti felici, tranne forse le vecchie signore che un tempo tiravano la sfoglia a mano e che oggi si aggirano spaesate tra un banco di churros e uno di sushi «fusion».
La sagra ha smesso di raccontare il territorio.
Ora è uno spettacolo itinerante che si adatta a ogni comune, come un circo. Ma al posto del tendone c’è il padiglione gonfiabile con luci led e sponsor della banca locale.
Alla fine, torni a casa con lo stomaco pieno e la testa confusa.
Cos’hai mangiato? Tutto e niente.
Dove sei stato? Boh, in un paese… non ricordo il nome. C’era musica alta, bambini che correvano con i palloncini, uno con la felpa di Tokyo Ghoul che ballava la bachata.
La trippa? Non pervenuta. Il pecorino locale? C’era, ma in vetrina come soprammobile. La gente del posto? Forse al mare, perché lì nessuno sembrava davvero del posto.
Eppure, il giorno dopo, sui social: “Grande successo per la sagra del gusto nostrano!”
Ma di nostrano, ormai, è rimasto giusto il nome della via in cui si parcheggia.
Sacra sì, ma dell’autenticità evaporata.
