| Carlo Di Stanislao |
«Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. È un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi divora, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi consuma, ma io sono il fuoco.» — Borges
Il 24 agosto non è un giorno qualunque, ma un varco in cui la storia sembra divertirsi a contraddirsi. È un giorno che somiglia a un palinsesto incendiato, una pagina su cui il destino ha inciso le sue lettere più feroci e più luminose. Fu il giorno in cui Roma cadde sotto i colpi di Alarico, il giorno in cui l’Urbe — simbolo di eternità — conobbe la rovina, dimostrando che nessun impero è immortale. Fu il giorno in cui la Bibbia di Gutenberg venne alla luce, e con essa la moltiplicazione della parola, l’inizio della lettura di massa, la possibilità che l’uomo comune potesse accedere alla Scrittura senza intermediari. Fu il giorno del massacro degli Ugonotti, quando le strade di Parigi si tinsero di sangue per una fede diversa, rivelando che la religione sa essere più feroce della guerra. Fu ancora il giorno in cui l’Alaska cambiò bandiera, e in cui l’Ucraina si liberò dal giogo sovietico. Ogni 24 agosto si addensano eventi che hanno in comune la loro natura di frattura e di nascita, di rovina e di germinazione.
In questo teatro di coincidenze che non sono mai davvero casuali, due uomini videro la luce, a distanza di ventotto anni: Jorge Luis Borges nel 1899, Guido Ceronetti nel 1927. Due autori lontani per lingua, per tono, per destino, eppure gemelli obliqui, come se il tempo avesse voluto donarci due strumenti opposti e complementari per guardare il mondo. Borges il visionario delle biblioteche infinite, dei labirinti e degli specchi; Ceronetti il profeta dell’anatema, l’uomo che ha fatto della peste una forma di pensiero. Uno cieco, l’altro misantropo; uno assetato di eternità, l’altro ossessionato dal male; entrambi convinti che la scrittura non sia un mestiere ma un destino.
Borges nasce a Buenos Aires, in una casa piena di libri. Il padre, professore di psicologia e appassionato di letteratura inglese, gli insegna Shakespeare prima ancora dello spagnolo. La madre, discendente di militari argentini, gli trasmette il senso dell’onore e della dignità. Fin da piccolo Borges è diviso tra due lingue, due mondi, due tradizioni: da un lato Cervantes e la Spagna, dall’altro Stevenson e l’Inghilterra. Cresce in una biblioteca, e forse già allora intuisce che la vera patria dell’uomo è la letteratura. A nove anni traduce Oscar Wilde, a dieci scrive i suoi primi racconti, a vent’anni entra nelle avanguardie argentine. Ma è solo dopo la malattia agli occhi, quando la cecità inizia a reclamare la sua vista, che Borges trova il suo vero linguaggio: quello della brevità infinita, del racconto che contiene l’universo.
Le sue opere — Finzioni, L’Aleph, Il libro di sabbia — sono miniere inesauribili. In poche pagine Borges riesce a evocare un mondo che sembra non finire mai. La sua idea di letteratura è insieme semplice e abissale: ogni libro è una parte di un libro unico, e ogni autore non fa che continuare una frase scritta da altri millenni prima. Borges scrive come chi sa che nulla è originale, che tutto è citazione, eco, specchio. Non si considera un creatore ma un lettore che porta avanti il gioco dell’universo. Per lui, leggere è già scrivere, e sognare è già vivere.
Quando gli chiedono della sua ispirazione, risponde che la parola non gli piace. Non esiste l’ispirazione, esiste una frase che appare nella mente, e da quella frase nasce tutto il resto. La scrittura per lui è ritmo, è risonanza, è lasciare che il linguaggio si faccia da sé. Non c’è distinzione tra prosa e poesia, non c’è distinzione tra saggio e racconto. Scrivere è sempre la stessa cosa: tentare di afferrare l’infinito con un gesto fragile.
Borges non distingue nemmeno tra realtà e illusione. In un’intervista disse: “Se posso sognare qualcosa, quel qualcosa è reale”. Amleto per lui è tanto reale quanto Lloyd George, perché entrambi esistono nella mente. Il pensiero è il luogo dell’esistenza, e la letteratura non è un’imitazione della vita ma la vita stessa nella sua forma più pura. Ecco perché i suoi racconti sembrano sempre muoversi tra il reale e l’immaginario senza mai scegliere da che parte stare: perché per Borges quella distinzione non ha senso.
Il fantastico, che per noi è evasione, per Borges è precisione. Non è fuga ma esattezza. Parlare di un labirinto, di una tigre, di un sogno significa parlare dell’eterno. Le cose concrete scompaiono, si consumano, passano. Un labirinto resta, una tigre resta, un sogno resta. Borges scrive per collocarsi nell’eternità, non nel presente. È per questo che rifiuta la fama e il successo di massa: scrive per un lettore ideale, che forse è solo se stesso. Non gli interessa avere milioni di lettori, gli interessa che una sola persona lo capisca, e che quella persona sia reale.
Il suo rapporto con Dio è altrettanto singolare. Non si definiva credente, ma confessava di sperare di avere fede. “Non credo al Paradiso e all’Inferno — disse — ma spero che Dio esista. Se esiste un aldilà, non vorrei sapere nulla di Borges.” Un ateo innamorato del sacro, un agnostico che prega senza saperlo. Dio per Borges è un enigma, un sogno, un avversario, non un catechismo.
Ama la filosofia ma non come scienza sistematica: la legge come poesia. Berkeley, Schopenhauer, Hume non sono per lui autori di dottrine, ma poeti che pensano. Ripete spesso che tutta l’arte è contemporanea, che non c’è distanza tra Platone e Joyce, che il tempo è un’illusione. Per lui il passato non è passato, il futuro non è futuro: tutto accade insieme, tutto è simultaneo.
Nei suoi versi ringrazia persino la cecità, che lo priva degli occhi ma gli offre una visione interiore più limpida. Ringrazia la diversità delle creature, i limiti, il tempo stesso. Borges non scrive per consolare ma per salvare. Una poesia, diceva, equivale a una vita donata.
Sul versante opposto, eppure nato nello stesso giorno, Ceronetti. Se Borges è la biblioteca, Ceronetti è la peste. Se Borges costruisce specchi, Ceronetti spacca specchi. Se Borges ci invita a contemplare, Ceronetti ci costringe a soffrire. Eppure entrambi hanno lo stesso scopo: svegliarci dall’idiozia, restituire dignità alla parola.
Ceronetti nasce a Torino nel 1927. Traduttore, poeta, drammaturgo, moralista. La sua passione assoluta è la Bibbia. A sedici anni scopre Qohelet, l’Ecclesiaste, e ne resta folgorato. Inizia a studiare l’ebraico, a tradurre, a commentare. La Bibbia diventa il suo nutrimento quotidiano. “Non si può essere uomini di cultura senza conoscere la Bibbia”, ripete. Ma la sua Bibbia non è un libro edificante: è un abisso, un vortice, un deserto. È il testo che insieme distrugge e fonda, che annienta e illumina.
Ama il Testamento come un libro che ti spoglia e ti ferisce. Detesta i profeti, che considera politici incapaci e spesso ridicoli. Non sopporta Pasolini, di cui prova ribrezzo fisico. Al contrario, considera Van Gogh un messia, Rimbaud un profeta. Ha giudizi netti sui papi: amava Giovanni XXIII, detestava Pio XII e Paolo VI, vedeva in Francesco un uomo di “aria fritta”. Per lui il papato è la rovina d’Italia, il vero potere occulto che ancora oggi ci schiaccia.
Il suo rapporto col cristianesimo è contraddittorio e lacerante. Dice: “Non l’ho mai amato, ma adesso lo difendo. Se provi a farne a meno sei un mollusco.” Una frase che è tutta la sua essenza: insultare e difendere nello stesso respiro, odiare e amare nello stesso gesto. È un moralista che non crede alla morale, un mistico che non crede a Dio, un ateo che non può vivere senza trascendenza.
Ceronetti è stato anche uomo di teatro. Con il Teatro dei Sensibili ha portato in scena spettacoli minuscoli e abissali, fatti di marionette, di gesti minimi, di parole sussurrate. Il suo teatro era un atto di resistenza contro la volgarità di massa, un modo di salvare la parola dal rumore. Era convinto che il linguaggio fosse in agonia, che la modernità lo stesse distruggendo. Le sue invettive contro la televisione, la politica, la tecnologia hanno il tono di un antico profeta, ma senza alcuna speranza di salvezza.
Nei suoi aforismi troviamo la sua anima: tagliente, disperata, ironica. “Solo un dio può salvarci, ma se vuole perderci ci perde.” “L’uomo moderno è un mollusco senza spina dorsale.” “La Bibbia è l’unico libro che ci insegna a morire.” Ceronetti non consola: morde, graffia, lacera. Ma nel suo morso c’è una forma di amore, l’amore disperato di chi non sopporta la stupidità e l’ipocrisia.
La sua figura è stata spesso isolata, marginale, laterale. Non apparteneva a nessuna scuola, a nessun partito, a nessuna chiesa. Era un eretico permanente, e proprio per questo una delle voci più necessarie. In un’Italia di chiacchiere, Ceronetti ha tenuto viva la tradizione dell’invettiva, del moralismo amaro, del linguaggio come coltello.
Ed è qui che il legame con Borges diventa sorprendente. Borges e Ceronetti sembrano due poli opposti, eppure entrambi operano nello stesso campo: salvare la parola dal nulla. Borges ci mostra che tutto è già scritto e che noi possiamo solo leggere meglio. Ceronetti ci ricorda che senza Bibbia, senza trascendenza, siamo molluschi. Borges ci consola con l’infinito; Ceronetti ci ferisce con il male. Borges è il telescopio, Ceronetti il microscopio. Borges è la biblioteca, Ceronetti la peste. Ma entrambi sono nati lo stesso giorno, come se il tempo avesse voluto regalarci la bussola intera: il Nord e il Sud, la luce e l’ombra.
In Borges la scrittura è gioia, gioco, vertigine. In Ceronetti è dolore, anatema, disperazione. Eppure entrambi ci proteggono. Borges ci protegge dal senso di finitudine, Ceronetti ci protegge dal senso di stupidità. Leggerli insieme significa aprire gli occhi in due direzioni diverse e complementari: verso l’eterno e verso il male, verso l’infinito e verso la peste.
Il 24 agosto diventa così il loro sigillo. In un giorno di invasioni, massacri, crolli e fondazioni, nascono due uomini che avrebbero trasformato la parola in destino. Uno a Buenos Aires, l’altro a Torino. Uno cieco e sognatore, l’altro misantropo e ferito. Uno innamorato dei labirinti, l’altro ossessionato dalla Bibbia. Entrambi lontani dalle mode, entrambi incapaci di piacere alle masse, entrambi destinati a restare.
Di cosa dobbiamo rendere grazie, dunque? Borges direbbe: della poesia inesauribile, che non arriverà mai al suo ultimo verso. Ceronetti risponderebbe: della peste, che ci ricorda che siamo vivi. Noi possiamo dire: della possibilità di leggerli nello stesso giorno, di tenerli insieme nella memoria come due poli dello stesso magnete.
Il 24 agosto è il giorno in cui la storia si ricorda di noi. Borges e Ceronetti sono la prova che, tra le macerie e i massacri, tra le invasioni e le cessioni, resta sempre la parola: fragile e feroce, infinita e mortale.
