Carlo Di Stanislao
«Ci sono più idee nella testa di un uomo che non vuole cambiare che in un intero Paese che teme di farlo.» — Albert Camus
L’Italia, nel corso della sua storia repubblicana, ha vissuto molti paradossi, ma quello che sta sperimentando nell’era del PNRR ha il sapore amaro delle occasioni perdute. Per una volta, il Paese aveva avuto davanti a sé un’occasione irripetibile: oltre 200 miliardi di euro destinati a modernizzare infrastrutture, digitalizzazione, pubblica amministrazione, ricerca, mobilità sostenibile. Una cifra enorme, mai vista, pensata non solo per alleviare i danni economici del Covid-19 ma per proiettare il Paese in una nuova stagione di crescita. E invece, come spesso accade nella nostra storia recente, il risultato rischia di essere l’opposto delle intenzioni.
Secondo le stime europee più recenti, nel 2027 l’Italia sarà ultima per crescita nell’Unione, nonostante il poderoso afflusso di risorse. Un “miracolo rovesciato”, come qualcuno lo ha definito, che mostra tutte le crepe strutturali del nostro sistema: lentezza decisionale, burocrazia bizantina, conflitti politici cronici, incapacità di guardare oltre l’orizzonte dei consensi immediati. E, soprattutto, una visione troppo spesso tattica e mai strategica.
Il paradosso della ricchezza sterile
La prima grande contraddizione del PNRR è evidente: le risorse ci sono, ma non si riesce a metterle a terra. A quattro anni dall’avvio, la spesa effettiva è ferma attorno al 40%. I cantieri non partono, i bandi si inceppano, i progetti vengono rimodulati a ripetizione. Ciò che avrebbe dovuto accelerare la modernizzazione viene invece risucchiato nel vortice di un sistema amministrativo che, da decenni, fatica a tradurre la progettualità in azione concreta.
In molte amministrazioni locali — soprattutto quelle più piccole — mancano tecnici, ingegneri, dirigenti amministrativi capaci di seguire processi complessi come quelli imposti dal PNRR. La macchina dello Stato è stata alleggerita per vent’anni e nel momento in cui serviva capacità progettuale, si è scoperto che non c’erano le competenze per mobilitare una tale massa di investimenti. La carenza non è solo numerica, ma anche culturale: si è preferito per anni vivere di emergenze, anziché pianificare.
Le responsabilità della politica: non solo del governo attuale
Attribuire la colpa di tutto all’esecutivo in carica sarebbe non solo ingeneroso, ma storicamente falso. L’Italia sconta una fragilità decennale nella gestione dei fondi europei: il Paese ha sempre avuto difficoltà a utilizzare pienamente le risorse strutturali e i fondi di coesione. Il PNRR ha semplicemente reso più evidente un problema che già c’era.
Ciò non toglie, però, che alcune scelte operate negli ultimi anni abbiano peggiorato la situazione. Si è preferito rivedere progetti già avviati piuttosto che accelerarne l’esecuzione; si è puntato su misure di spendita più politiche che strategiche; e, soprattutto, si è raccontata per troppo tempo un’Italia che “correva”, quando i numeri segnalavano esattamente l’opposto.
La politica nazionale, prigioniera della comunicazione permanente, ha finito per far creder che la crescita potesse derivare magicamente da una pioggia di miliardi, senza interrogarsi su come trasformare davvero il Paese. Ma la crescita non nasce dai soldi in sé; nasce dalla capacità di metterli a frutto.
Il nodo culturale: un Paese refrattario al cambiamento
Il problema principale, però, è culturale. Lo si vede in mille episodi: dai comitati che bloccano ogni costruzione, ai ricorsi infiniti contro opere pubbliche, alle resistenze corporative che ostacolano ogni innovazione. In Italia, troppo spesso, il nuovo è percepito come una minaccia, non come un’opportunità.
Lo dimostrano i casi di infrastrutture mai completate, come aeroporti che attendono ampliamenti da trent’anni, linee ferroviarie progettate e rimaste sulla carta, opere strategiche deviate da una pletora di vincoli e contro-vincoli che scoraggerebbero chiunque.
È un Paese che vive di rimandi, dove la politica promette e la burocrazia frena, dove ogni riforma trova almeno una categoria scontenta e pronta a bloccarla. Dove, pur sapendo cosa serve, prevale la paura di fare.
Nord e Sud: due velocità, un’unica sconfitta
La geografia dello sviluppo resta — purtroppo — invariata. Le regioni del Nord, che avevano già un apparato amministrativo più forte, sono riuscite a spendere più fondi; quelle del Sud, dove le carenze strutturali sono più evidenti, sono rimaste indietro. Ma l’Italia non può crescere “a metà”: un Paese che viaggia a due velocità finisce sempre per rallentare al ritmo del segmento più debole.
La verità è che il PNRR rappresentava proprio la possibilità storica di ridurre questa distanza. Non è accaduto, e questo rischia di pesare sulla competitività nazionale per i prossimi decenni.
Il nodo della produttività
L’Italia, da oltre vent’anni, non cresce perché non aumenta la produttività. E la produttività non si innalza senza innovazione, ricerca, formazione, digitalizzazione, procedure snelle, investimenti tecnologici, imprese competitive. Esattamente ciò che il PNRR avrebbe dovuto favorire.
La maggior parte dei progetti si è concentrata su infrastrutture materiali o micro-interventi — necessari, sì, ma insufficienti per incidere sul vero gap del Paese: il capitale umano e tecnologico. Senza un forte investimento in università, ricerca e sviluppo, nuove competenze, start-up e imprese ad alta innovazione, la crescita resterà anemica, indipendentemente dai tram costruiti o dagli asili ristrutturati.
Un’occasione che non può diventare rassegnazione
Eppure, nonostante il quadro poco incoraggiante, è ancora possibile invertire la rotta. Una parte dei fondi deve ancora essere spesa; molte opere sono avviate e possono portare benefici reali; alcune riforme della pubblica amministrazione stanno iniziando, pur lentamente, a produrre effetti. Ma serve un salto di qualità nella visione politica e nella responsabilità amministrativa.
Il Paese deve decidere se vuole continuare a sopravvivere tra piccoli passi e arretramenti ciclici, o se vuole finalmente affrontare le sue fragilità storiche: la burocrazia inefficiente, la giustizia lenta, l’evasione diffusa, un sistema educativo in difficoltà, l’incapacità di valorizzare i giovani, il peso insostenibile del debito pubblico.
Non è più il tempo dell’alibi. I numeri parlano, la realtà si impone, la storia presenta il conto. E l’Italia non può permettersi di fallire di nuovo l’appuntamento con il futuro.
Il vero miracolo (possibile)
Il vero miracolo non sarebbe spendere tutti i fondi europei: sarebbe imparare a spenderli bene. Sarebbe trasformare un Paese che ha paura del cambiamento in un Paese che lo pretende. Sarebbe far sì che la politica riconosca finalmente che la crescita non si annuncia: si costruisce. E si costruisce con una visione che guarda oltre il giorno dopo, oltre il sondaggio del mattino, oltre la ricerca perenne del nemico da additare.
Il vero miracolo italiano, oggi, sarebbe liberarsi della tentazione — eterna, seducente, mortale — di accontentarsi della mediocrità. E iniziare finalmente a credere, con coraggio, che essere ultimi in Europa non è il nostro destino, ma solo il risultato delle nostre scelte.
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