Mercoledì delle Ceneri: la cenere come atto di rivolta spirituale

Carlo Di Stanislao

C’è un giorno nell’anno che si presenta senza luci, senza coriandoli, senza applausi. Un giorno che non vende, non promette, non celebra. Anzi, ci mette in ginocchio, ci sporca la fronte e ci dice parole scomode: “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai.” È il Mercoledì delle Ceneri, e nonostante tutta la nostra modernità, la nostra tecnologia e le nostre illusioni di immortalità, questo giorno ci riguarda ancora. Forse oggi più che mai.

Viviamo immersi in una cultura della performance e della distrazione. Siamo costantemente spinti a fare, produrre, apparire. Persino il dolore deve essere “accettabile”, la tristezza “gestibile”, la morte “distanziata”. Il corpo deve essere eterno, l’anima anestetizzata. Ma il Mercoledì delle Ceneri viene a rovinare tutto questo con una semplicità disarmante: una croce di cenere tracciata sulla fronte, e un silenzio più forte di qualsiasi proclama.

È un rito che resiste nei secoli perché parla all’uomo di ogni tempo. Non ai suoi successi, ma alla sua verità. Non al suo ego, ma alla sua anima. La cenere, in fondo, è ciò che resta dopo il fuoco. È il segno che qualcosa è bruciato, sì, ma anche che il fuoco ha avuto senso. E forse il senso non sta nel fuoco stesso, ma proprio in ciò che rimane dopo: nella fragilità, nella vulnerabilità, nella memoria che apre alla possibilità.

Oggi, inginocchiarsi per ricevere la cenere non è un gesto di sottomissione. È un gesto di libertà. È dire “no” a un mondo che ci vuole infiniti, impeccabili, invulnerabili. È scegliere di guardarsi con verità e di tornare all’essenziale. È un atto spirituale, ma anche profondamente umano. È ribellarsi al mito del controllo e riabbracciare il mistero.

Il Mercoledì delle Ceneri ci invita a smettere di fuggire. A non aver paura del vuoto, del silenzio, della finitudine. Ci insegna che solo chi accetta il proprio limite può aprirsi all’infinito. Che solo chi si spoglia del superfluo può riconoscere il volto di Dio nei frammenti della vita.

E in quel gesto così nudo e umile, la cenere ci restituisce la dignità perduta. Perché proprio nel momento in cui riconosco la mia polvere, posso dire:
“Io sono figlio. Figlio del Padre che dalla cenere dell’umiltà mi fa rinascere a dignità umana e divina.”
Non un Dio distante che chiede perfezione, ma un Padre che mi raccoglie dalla terra, che mi plasma di nuovo con tenerezza, che soffia in me il suo Spirito e mi dice: “Tu sei mio. Tu sei vivo.”

La cenere allora non è solo memoria della morte, ma profezia di resurrezione. È il punto più basso da cui si risale. È la terra nera che aspetta la pioggia. È la sosta prima della fioritura.

Il cristianesimo, quando non si traveste da abitudine o da morale, è fuoco. È cenere. È nuova creazione. È Vangelo che sussurra: “Non temere, piccolo uomo di polvere, perché in te abita la scintilla di Dio.”

E in un tempo in cui anche la religione rischia di diventare spettacolo, il Mercoledì delle Ceneri ci riporta al sacro nascosto. Al Dio che non grida, non invade, non impone. Ma che si lascia trovare nella cenere, nel digiuno, nel silenzio, nella fatica di camminare nel deserto. Un Dio che non salva dall’alto, ma scende fino alla polvere con noi, per poi risorgere da lì.

Accettare la cenere sulla fronte oggi è forse il gesto più scandaloso che si possa fare. È dire: “Io non sono Dio. Non controllo tutto. Non durerò per sempre. E va bene così.” Ma soprattutto è dire: “Io sono figlio. E anche se sono polvere, sono amato. E in quell’amore, ogni volta, posso rinascere.”

Poesia finale di Italo Nostromo:

Nel giorno che sfuma senza gloria né suono,
una mano ci sporca per farci brillare,
non d’oro, ma di cenere viva:
il peso della fine che ci fa iniziare.

Polvere che pensa, carne che spera,
non sei nulla, se ti credi tutto.
Ma se accetti il nulla, allora sei tutto.

Dio non abita nei palazzi d’ambra,
ma scende nel deserto, nella fame,
nella voce che tace e nella polvere che arde. 

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