Carlo Di Stanislao |
«L’anima non ama, se non perché ricorda.»
— Giordano Bruno
Il mito di Mensola e Africo nasce nel cuore della Toscana, nella valle fiesolana che domina Firenze. È un racconto all’apparenza pastorale, ma intriso di significati profondi. Africo è un giovane pastore, semplice, innocente e fuori dal mondo sacro. Un paria del cielo, ma figlio della terra. Mensola, al contrario, è una ninfa consacrata a Diana, figura lunare, inviolabile, appartenente a un ordine superiore, celeste e casto.
Quando Africo incontra Mensola durante una battuta di caccia, ne rimane stregato. Non è solo bellezza a travolgerlo, ma qualcosa di più: una nostalgia dell’Assoluto, una memoria perduta che risveglia in lui il desiderio della fusione con ciò che è puro, immateriale, sacro. Anche Mensola si lascia toccare: riconosce nell’amore la via dell’unione. Ma questa via non è concessa. La rottura del giuramento a Diana è una profanazione: la dea punisce entrambi. Mensola è trasformata in torrente, Africo si getta da una rupe e anch’egli diviene acqua.
Questa doppia metamorfosi suggella il mito: i due amanti scorrono per sempre vicini, ma senza mai più potersi toccare.
Lettura simbolica: un mito di iniziazione
La storia cela un processo iniziatico completo, riconoscibile nei suoi tre momenti fondamentali:
- Separazione (Nigredo)
Africo vive nella semplicità inconsapevole, poi si separa dalla sua condizione terrestre attraverso il desiderio. Incontra l’elemento sacro (Mensola), ma non è pronto ad accoglierlo. Il contatto, non armonizzato, produce frattura. Questo è l’inizio del cammino iniziatico: il caos, il turbamento, la morte simbolica dell’identità profana. - Trasmutazione (Albedo)
La punizione divina, letta esotericamente, è un atto di purificazione: Mensola e Africo sono sciolti, letteralmente, nel simbolo dell’acqua. L’acqua è elemento di passaggio, di lisi alchemica, di perdita del corpo e dell’Io. In questa fase, il mito si spoglia della linearità e diventa processo spirituale. - Sopravvivenza nella memoria (Rubedo)
I due non si riuniscono in forma umana, ma la loro unione si trasforma in presenza fluente nel paesaggio. I torrenti che portano i loro nomi continuano a vivere, testimoniando una unità ritrovata su un piano sottile. La rubedo, fase finale dell’Opera, non è qui la resurrezione individuale, ma la fusione con l’eterno, con il ciclo cosmico.
Boccaccio e la geografia sacra del mito
Il primo autore a scrivere questo mito fu Giovanni Boccaccio, nel trattato latino De montibus, silvis, fontibus…, dove raccoglie nomi e significati di luoghi geografici e mitici. Ma questo testo non è un semplice inventario. Boccaccio vi inserisce il senso profondo del paesaggio, la sua anima invisibile.
In questo senso, Boccaccio può essere letto come un geografo dell’invisibile: ogni torrente, ogni monte, ogni fonte è per lui un segno dell’ordine superiore del cosmo, una reliquia del sacro.
Nel caso di Mensola e Africo, egli non solo tramanda la leggenda, ma ne cristallizza il significato ermetico: l’unione tra i due amanti, impossibile nella carne, si compie nell’acqua. In questo modo, Boccaccio trasforma la topografia fiesolana in una mappa iniziatica: ogni luogo diventa passaggio, simbolo, soglia.
2025: 650 anni dalla morte di Boccaccio
Nel 2025 ricorrono i 650 anni dalla morte di Giovanni Boccaccio, avvenuta nel dicembre del 1375 a Certaldo. Figura chiave della letteratura europea, Boccaccio fu anche custode e pontefice della sapienza dantesca. Con il Trattatello in laude di Dante e le sue letture pubbliche della Commedia, egli contribuì a trasmettere la dimensione esoterica e visionaria dell’opera dantesca alle generazioni successive.
Questo anniversario è un’occasione unica per riportare alla luce la dimensione occulta della sua opera, spesso offuscata dal solo riferimento al Decameron. Boccaccio fu umanista, ma anche mitografo, allegorista, e, in senso medievale, un iniziato alla parola sacra.
Giotto, Dante e il volto ermetico di Firenze
Nel cuore di Firenze, nel Palazzo del Bargello, si conserva un affresco attribuito a Giotto, che ritrae Dante giovane nella Cappella del Podestà. Questo affresco, contemporaneo agli anni in cui Boccaccio scriveva le sue opere latine, non è solo un tributo visivo: è una dichiarazione spirituale.
Giotto, iniziato all’arte sacra, rappresenta l’essenza visibile dell’invisibile. Dante, poeta sapienziale, è colui che ha attraversato i mondi. E Boccaccio è colui che raccoglie, custodisce e trasmette.
Insieme, formano un triangolo spirituale, un’alleanza fra parola, immagine e mito, la trinità ermetica della Firenze medievale.
Acque, anime e simboli: la lezione del mito
La trasformazione di Mensola e Africo in torrenti è simbolo vivente del tempo e della coscienza. I fiumi non dimenticano: scorrono in silenzio, e nel loro fluire trasportano la memoria dell’inizio, come le acque primordiali nella cosmogonia ermetica.
Mensola e Africo non muoiono. Vengono deposti nel simbolo. Diventano ritmo e ritorno, presenze sottili che ogni viandante fiesolano può ancora ascoltare, se sa leggere i segni, se sa guardare oltre l’apparenza della pietra e del muschio.
Il mito ci insegna che:
- La bellezza è via verso l’alto, ma solo se accompagnata dalla consapevolezza
- Il desiderio non è errore, ma inizio di un cammino interiore
- La morte dell’identità è necessaria per accedere al fluire del Tutto
Conclusione
In un tempo in cui tutto è rapido e dimenticato, il mito di Mensola e Africo — ripreso da Boccaccio, evocato nella Firenze di Dante e Giotto — ci invita a riscoprire la lentezza del simbolo, la profondità del luogo, la sacralità dell’acqua come metafora dell’anima.
Nel 2025, celebrando i 650 anni dalla morte di Boccaccio, celebriamo anche questa memoria vivente, fatta di parole, fiumi e silenzi.
La leggenda non è fantasia: è realtà profonda, rivestita di forma poetica.
E ogni torrente che scorre tra le colline, ogni fonte che sgorga da una roccia, potrebbe ancora sussurrare:
“Io ero Mensola. Io ero Africo. Io sono il tuo stesso desiderio di trasformazione.”